
PRATO. La bravura si vede, si tocca e, come spesso accade, si allea ad altre bravure, diventa un’orgia di bravure. Nel mondo della musica è successo con gli Special Efx, con gli Yellow Jackets, con la Mahavisnue Orchestra, con i Water Report. E ieri sera è capitata la stessa cosa: l’indimenticabile sensazione che ricevemmo e godemmo ai concerti al Palasport di Roma, a Umbria Jazz, a Montreaux, è quella che abbiamo nitidamente avvertito al Fabbricone di Prato (ribadiscono stasera, ore 19,30 e domani pomeriggio, 11 novembre), come spettatori di Quasi niente, un laborioso, articolato, letale lavoro sociale/introspettivo di Daria Deflorian (parla troppo, veramente, ma è una fortuna ascoltarla) e Antonio Tagliarini (parla poco, ma mai a sproposito) che, folgorati, ma non solo, crediamo e ci auguriamo, da Deserto rosso di Michelangelo Antonioni, ne hanno voluto ritessere le fila senza limitare lo sguardo a Giuliana e al suo inutile amante Corrado, ma esplodendo e implodendo attorno alla figura, magistrale ed enigmatica, di Monica Vitti, l’universo del terzo millennio. Un lavoro corale, obliquo, generazionale, con, oltre ai due ideatori, una trentenne (Francesca Cuttica, diaframma portentoso, seppur impegnata in motivi gaberiani), un quarantenne (Benno Steinegger, armonico e delizioso, potente e gentile) e uno degli incidenti più belli del teatro contemporaneo, quella meravigliosa, straordinaria figura policroma e multiforme che risponde a Monica Piseddu.
Con in sottofondo, Deserto rosso, richiamato in più di una circostanza con nome e cognome, ma quasi a sincerarsi e sincerare il pubblico che le riflessioni senza trama in scena avessero un prestigioso input, che si fossero inevitabilmente scatenate grazie a quella meravigliosa provocazione cinematografica datata ormai da oltre mezzo secolo. Sulla poltrona rossa, un trono, un confessionale, un pulpito, una donna da proteggere, da sedurre, da violentare, da portare la sera al ballo, si seggono e si raccontano tutti i personaggi in scena, ognuno nei panni di se stesso, osservati, scrutati, radiografati, vivisezionati dagli altri in silenzio, disposti con asimmetrica geometria sul palco, profondo, profondo quanto basta perché le distanze siano oggettivamente incolmabili, perché generino quella solitudine che rappresenta la premessa depressiva, il male del duemila, sapientemente covato negli anni precedenti da una chirurgica università farmacologica e da una società proiettata negli inferi. Ma non è un gioco emotivo, un esercizio di improvvisazione, una seduta psichiatrica collettiva; alle spalle della tragicomicità della rappresentazione uno studio forsennato e tassonomico della rilettura, una psicotica ricerca degli spazi e delle sue costellazioni, una fumosa e indistinguibile esplosione dei colori (qui, l’omaggio al nono lungometraggio dell’autore, è spudorato), delle diagonali come ludici esercizi adolescenziali, dei silenzi, della ginnastica, di quella falsa solidarietà che offre la sensazione di avere sempre dei complici a portata di mano salvo poi vederli scomparire nei momenti più importanti. Una desolazione sociale e culturale che coinvolge, a vari livelli e a strati differenziati, tutte le generazioni, ognuna carica delle proprie fobie, dalle quali non saprebbe più separarsi, farne a meno, guarire. Ed è proprio attorno a quel poco, a quel quasi niente che si accendono e si intersecano i motivi dello spettacolo, che gode di una massiccia produzione indigena, romana ed emiliana, con collaborazioni europee, che si avvale di una seria e prolungata ricerca, di alcuni lampi di genio, un urlo di dolore, un message in the bottle che i cinque mattatori in scena hanno lasciato appoggiato sulla battigia di un mare mosso, troppo mosso, ma non abbastanza, temiamo, perché l’sos protetto dal vetro prenda il largo e arrivi a destinazione.
