di Paolo Ferro

PRATO. Come spostando pietre geme ogni giuntura! Riconosco l'amore dal dolore lungo tutto il corpo. È questo il filo conduttore della messa in scena di Valentina Banci al Teatro Borsi di Prato. Un amore doloroso, quello di Marina Cvetaeva, protagonista della storia, per i figli, per la poesia di cui non può fare a meno, nemmeno quando la fame e il freddo ti danno i morsi più feroci. Valentina attinge a piene mani dagli scritti amari e strazianti della poetessa russa, mescolando con sapienza l’ingrediente della fatica di vivere con quello della cronologia del suo obbligato peregrinare per l’Europa, con voci fuoricampo, strappate e sfinite, e con abili similitudini alla marionetta-attrice, in cui si scorgono persino umori di Gordon Craig. La maestria dei registri usati, tuttavia, non basta a rendere più mite la sofferenza anche dello spettatore, rendendogli difficile l’entrata nel tema.

Egli è costretto alla porta di servizio, quella del realismo della scena, con luci scarne, terra umida e lunghe candele accese a poco a poco, per riuscire a prendersi un tempo di riflessione che lo proietti nella storia. Non dormire ripete all’infinito la protagonista, e sembra metterci in guardia dall’entrare in empatia con lei, il cui destino è irrimediabilmente segnato. Un lavoro certamente ambizioso, risolto con le armi tipiche di chi ha passeggiato a lungo sulle tavole del palcoscenico ma che stavolta vuol raccontarci di sé, della donna, mettendosi a nudo e accettando lo sguardo pesante e critico su di sé.

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