
FIRENZE. Anche la balbuzie, affatto strategica, abbinata a sagome e deambulazioni modeste, seppur fiere, ha reso perfettamente l’idea. Sì, Ljuba e Gaev, la leggendaria coppia checoviana, somigliano davvero a Giuliano e Annalisa Bianchi, i coniugi bolognesi che nel novembre del 2015, per esigenze della F.I.Co (Fabbrica italiana contadina), dovettero abbandonare per sempre il loro casolare, dove abitavano da trent’anni in comodato d’uso e andare a riparare in un residence di sfollati. Peccato che alla felice intuizione, Nicola Borghesi, regista e forzoso mattatore de Il giardino dei ciliegi, in scena al Niccolini di Firenze, non abbia saputo abbinare un’adeguata struttura teatrale, peccando, soprattutto, della sindrome dell’invincibilità, andando in più di una circostanza oltre lo scibile, il comprensibile e il sopportabile. Peccato, perché anche il presupposto - la funzionale scaramanzia di lasciare nel cassetto della scena il vecchio orologio (il tempo) e il monile (l’oro) -, sembravano poter essere due aspetti sui quali credevamo che il copione avrebbe poi ribattuto il ferro.
Anton Checov resterà immortale, ci mancherebbe altro, ma questa rilettura poteva essere sfruttata decisamente meglio. A cominciare dai protagonisti, l’adorabile coppia felsinea vittima di un’inesorabile espropriazione capitalista, che andava studiata nei dettagli, ma per poi affidarne la testimonianza a due professionisti, onde evitare di far nascere, in più di uno spettatore, il dubbio che si trattasse di un documentario, anziché di uno spettacolo; come le furbizie degli inconvenienti, che sarebbero potute essere gestite con meno insistenza, compresi i rispettivi copioni che i quattro quinti dei protagonisti, escluso il ritardatario Lodovico Guenzi (meno fertile, la sua somiglianza, a Lopachin, l’espropriatore sovietico), si sono tenuti gelosamente tra le mani e sotto gli occhi per l’intera rappresentazione, che andava, soprattutto quest’ultima, rigorosamente scremata di qualche dettaglio/orpello e protratta per qualche decina di minuti in meno. Si rifaranno tutti e tre (Nicola Borghesi, Paola Aiello e Lodovico Guenzi), ne siamo certi; la linfa di sopravvivenza teatrale pare la posseggano e poi, così giovani, avranno tutto il tempo di farne incetta. A Giuliano e Annalisa Bianchi, invece, auguriamo tutto il bene del mondo, quello che improvvisamente, tre anni fa, ha deciso di voltar loro le spalle derubricando le meravigliose rispettive esistenze, fino a quel momento bucoliche, proletarie e leggendarie, ad anonime sopravvivenze. A tutti, stavolta, indistintamente, raccomandiamo, nonostante il momento storico particolarmente catartico ne offra sistematicamente il fianco, di evitare scontate demagogie: qualche ultrà, in platea, che eserciti la propria gratitudine con un incoraggiante applauso fuori catalogo, lo si trova facilmente; alla lunga, però, si rischia più di perdere qualche sportivo e vista la magrezza delle vacche, in sala, naturalmente, sarà meglio stare più attenti.
