
PISTOIA. Nel corpo di Charlie Chaplin (Serena Balivo) vive un uomo che ha la voce di Fracchia, una delle più nobili e tragiche sagome della genialità di Paolo Villaggio. Mariano Dammacco, presidente dell’omonima piccola compagnia, di Esilio, firma la regia negli abiti di un cronista nel giorno dell'elezione di miss drag queen, più che in quella dell'inviato alla resa dei conti nelle volte celestiali. Racconto checoviano, quello descritto l’altra sera al Funaro di Pistoia, dove l’uomo senza tempo ed età può tranquillamente essere iscritto, di diritto, nella lista de I miserabili, pur senza possedere la geniale invettiva di Jean Valjeant, né la disperazione dei suoi amici, capaci di armarsi e fare la Rivoluzione. Perché l’esule (forzoso) di turno è un uomo al quale, improvvisamente, gli viene sottratta, sotto i piedi, la dignità, prima e più che la terra. E in un battibaleno, quest’uomo senza lavoro, senza presente, figuriamoci un futuro, senza il diritto di sognare, senza diritti, viene scaraventato nel limbo, nella terra di nessuno, dove riesce a sopravvivere grazie soltanto ai riverberi cittadini che gli arrivano via internet dalle piattaforme sociali e a un binocolo che ha saputo custodire prima di perdere tutto.
Cannocchiale con il quale riesce ancora a distinguere i suoi simili immersi nella folle quotidianità e a sentirsi, incredibilmente, uno di loro. Ma ancora per poco, però. Presto, infatti, le banche gli chiuderanno le casse; gli amici e i conoscenti, la considerazione, fino a trasformarlo in un apolide, con un corpo e una mente in preda a metastasi e l’anima, unica integra in un contesto destabilizzato, capace di provare a risollevarlo. Ma non basterà nemmeno la luce della speranza, l’inderogabile fermezza della dignità a rimetterlo in carreggiata riconsegnandogli la licenza per sopravvivere. Si presenteranno, come conto da pagare, tutti quei sentimenti che sovrappopolano le aspettative di chiunque sia stato, senza alcun preavviso, defenestrato dalla giostra. E ognuno di costoro prenderà il sopravvento sui precedenti, per far posto, automaticamente, ai successivi, in un gioco, massacrante, di spersonalizzazione. La tragicomicità di quell’umorismo noir di cui ne han fatto incetta alcune illustre prime donne dello spettacolo e che si presenta, a cadenze naturali, nella lunga confessione dammacchiana, non basta a lenire il dolore dettato da un’assoluta incapacità di trovare il bandolo della matassa per poter ripartire. Il piccolo ring senza corde sul quale Charlot ha la necessità di raccontare, non foss’altro per trovare una soluzione, la propria sconfitta, e raccontarsi, è la stessa claustrofobica dimensione nella quale si trova un soggetto sbalestrato tra i meandri dell’impossibilità di esistere alle prese della ricerca di un pertugio nel quale riuscire a intrufolarsi per resuscitare. Alla porta della propria anima, in verità, bussa anche la rabbia, ma è un acredine fantozziano, che suscita più ilarità agli spettatori che forza combattiva nel protagonista. Che prova a rifugiarsi nella religione, prima di sottomettersi all’umiliazione di mortificanti palliativi impiegatizi. Con tragici risultati, su tutti i fronti. Solo il ricorso alla morte, come estrema ratio, ultima possibile panacea, non è contemplato da questo viaggio di apparente sola andata. Un pizzico di involontario ottimismo? Un rifiuto categorico all’autodistruzione? O forse perché, sprezzante di ogni luogo comune, quelli con i quali si riempiono stadi e supermercati, la morte non può comunque rappresentare una risposta? O forse perché la speranza non è stata ancora del tutto corrosa; ci sono pallidi margini, anche se sopraffatti dal rischio di sprofondare ulteriormente, che indicano una flebile e remota possibilità di risalire in superficie. O forse solo perché partire, senza volerlo, poi, in Esilio, è un po’ come morire. O forse perché gli ultimi non hanno nemmeno il diritto di scomparire. Anzitempo.
