
FIRENZE. Quasi irritante, per passione, precisione, perfezione, immedesimazione, nonostante quel Teatro, il suo Teatro, stia ormai inesorabilmente tirando le cuoia, lui, il debuttante Gabriele Lavia, alla milionesima rappresentazione di se stesso catapultato su un palcoscenico, tira fuori dal suo cilindro senza fondo un’altra perla spaventosa e impone al popolo della Pergola di Firenze un naturale e unisono stand up, con le mani a battere fragorosamente e ritmicamente un grazie lungo più di cinquant’anni. La moglie e la cognata (Laura Marinoni e Federica Di Martino) di John Gabriel Borkman riescono magnificamente a stargli accanto, rintuzzando istericamente le sue ossessioni d’onnipotenza e rinfacciandogli, con materno erotismo, il cinismo con il quale ha barattato la sua passione per la carriera; così come il figlio Francesco Sferrazza Papa, la sua compagna occasionale per giustificare la fuga dal grigiore infernale della casa, Giorgia Salari, l’amico fallito, ma non recluso nelle patrie galere, Roberto Alinghieri e sua figlia Roxana Doran, che si unirà alla fuga degli eredi senza portafogli e dunque irriconoscenti.
Ma al centro, anche quando la scenografia (Guido Fiorato), monumentale, tardo rinascimentale, sempre a proposito di quel Teatro che sta scomparendo, non lo contempla, John Gabriel Borkman, così come l’amico di vecchia data, Marco Sciaccaluga (il regista), ha disegnato, è lì, imponente, ossessivo, famelico, che si fa desiderare, come se si trattasse di una liberazione, al solo tacchettio delle scarpe dal piano di sopra, o con il volume alto profuso dalla sua musica decadente. Quando arriva, poi, il dizionario del Teatro, di quel Teatro che non ne ha più molto, di tempo, ma che non smetterà mai di essere banco di prova per chiunque decida di calcare le scene, inanella una serie di lezioni imprescindibili: il corpo, le mani, la voce, i tempi, la deambulazione, gli sguardi, i silenzi, le attese, gli interventi, la declinazione del diaframma, lo sguardo, sornione e cinico, retorico e rivoluzionario, la vita e l’abnegazione allo spettacolo. Gabriele Lavia è tutto questo, sistematicamente, come se i suoi settantasei anni non fossero mai passati o fossero passati da sempre con il patto, diabolico, di essere però eterni e dunque, non invecchiare. È ancora lì, John Gabriel Borkman, a giocare con il destino, beffardo, intento, con goffa commozione, incredibilmente ancora credibile, a giustificare nefandezze, contorto dal desiderio di un’impossibile rivincita esistenziale e dalla possibilità, unica, ultima, di riconciliarsi al mondo e con il mondo, almeno con il suo, quello che ha patito i suoi onnivori deliri ed è inesorabilmente scivolato, con lui, nel baratro, nel suo fottutissimo baratro, che aveva incensato ed edulcorato con improbabili lusinghe. Ma è il dramma di Henrik Ibsen ad adattarsi, particolarmente, al mattatore milanese o è quell’animale da appalusi a sapersi spogliare e rivestire con supersonica velocità per calarsi nei panni di ogni eroe semiserio che popoli, da secoli, le pagine dei racconti? Siamo propensi a individure, nel laviacentrismo, le sue incommensurabili possibilità di immedesimazione, che sono, contemporaneamente, elemento di plebiscitaria sovranità e irritazione, quella rigida, incorruttibile, passionaria e ansiogena duttilità che traghetterà, il giorno del suo funerale, lo spettacolo sull’altra sponda, sulla riva dell’eternità, corteo funebre al quale cercheremo di non mancare consapevoli di aver sepolto, per sempre e irreversibilmente, le gesta del Teatro, conservando però gelosamente e preziosamente tutti i suoi appunti, molti dei quali scritti proprio da Gabriele Lavia e ai quali dovremo per forza di cose fare ricorso ogni qual volta avremo il più semplice dei dubbi.
