PISTOIA. I singhiozzi e le lacrime, impossibili da nascondere, di fine rappresentazione, riassumono probabilmente lo stato d’animo di tutti i protagonisti di Nora, e non solo di Tania Ferri, che piangeva a dirotto, a cui la regista Dora Donarelli ha deciso di affidare il ruolo della frustrata mattatrice. Perché Casa di bambola, di Henrik Ibsen, dramma introspettivo che affida ai protagonisti non solo e non tanto la partitura dei testi, quanto l’espressività, muta, dei rispettivi stati d’animo, non è certo un’opera facilmente traghettabile su un palcoscenico. Il benestante e viscido Torvald Helmer (Pino Capozza), infatti, si svela in tutta la sua meschinità solo un attimo prima del tragicomico epilogo; Nilse Krogstad (Marino Filippo Arrigoni), suo compagno di studi, a cui la vita ha decisamente riservato sorte meno benevola, riesce parzialmente a riabilitarsi solo dopo aver paventato e sfiorato il secondo e forse letale tracollo esistenziale; il dottor Rank (Riccardo Baldini), il medico di famiglia, quello di casa Helmer, confida all’amica Nora tutta la sua incondizionata e inconfessata passione solo in punto di morte, così come Cristina Linde (Simona Calvani), la vecchia amica ritrovata di Nora, che solo in prossimità dell’epilogo offre tutta la sua aggressività.

E poi lei, Nora (Tania Ferri), che acquista crescente e inaspettata consapevolezza, sociale e femminile, solo quando il castello dorato della Barbie nel quale pensava di poter trascorrere tutta la propria vita rischia di sgretolarsi in un batter d’occhio. Sono questi i cinque ingredienti che insaporiscono la pietanza del dramma di Henrik Ibsen, tragedia datata, ma senza tempo, che è andata in scena con la compagnia amatoriale Il Rubino, giovedì 29 novembre al piccolo Teatro Bolognini, di Pistoia, organizzata, a scopo benefico, dalla Lega italiana per la lotta ai tumori (Lilt), alla quale è stato devoluto l’incasso. Un fine così nobile, promosso da un cast di non professionisti, potrebbe già essere motivo di plauso, incondizionato. Crediamo che valga la pena aggiungere anche il nostro applauso ai tanti numerosissimi che sono inevitabilmente scrosciati al termine, perché al di là di ogni ragionevole considerazione collaterale, i cinque protagonisti hanno preziosamente trasformato i loro rispettivi ruoli in altrettante sfaccettature (im)morali, rendendo fragile, tragica e attualissima (il merito è di Ibsen, prima di tutto e di Dora Donarelli, in seconda battuta) una società in perenne disequilibrio. Perché di Casa di bambola ne abbiamo viste più versioni e questa di non professionisti, con l’eccezione di quella surreale del vate Filippo Timi, ha poco o nulla da invidiare alle altre, per precisione, ritmo, professionalità e calore. Sì, certo, qualche volta il volo drammaturgico perde leggermente quota, ma i passeggeri/spettatori non ne risentono come se si trattasse di fastidiosi vuoti d’aria e al momento dell’atterraggio, l’applauso che si decreta al pilota quasi sempre un po’ per scaramanzia, per questo volo scatta tanto automaticamente, quanto doverosamente; non era facilissimo tenere in altitudine un velivolo così complicato, con alla cloche personale che di voli ne ha fatti tanti, ma da semplici passeggeri.

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