
PRATO. Così come molti nostri trisavoli hanno avuto il diritto di provare, emigrando in cerca di dignità, più che di fortuna, a cancellare le loro irriconoscenti origini, noi, eredi decisamente più fortunati dei nostri nonni, abbiamo il dovere di andarle a ricercare. È questo, riassunto frettolosamente, il lavoro che sta svolgendo, da qualche tempo, la regista, attrice e drammaturga francese Clyde Chabot, della Compagnia transalpina Commanauté inavoauble, che oggi pomeriggio, domenica 16 dicembre, al Fabbrichino di Prato, offrirà la sua ultima replica di Sicilia, uno sguardo appunto, frutto di ricerche, testimonianze, viaggi, fotografie, tentativi, di provare a ricostruire il proprio albero genealogico, che affonda le radici in Sicilia, tra Agrigento e un paesino del quale si sono perse le tracce toponomastiche e affettive. Per riconciliarsi con le proprie origini, Clyde Chabot, nel suo spettacolo, prodotto proprio dal Metastasio, ha deciso di ricordare a voce alta, per raccontarlo, il proprio viaggio a ritroso ospitando gli spettatori intorno a una lunga tavola bandita di soli bicchieri, bottiglie di Nero d’Avola, pane, pecorino pepato (tre elementi della cultura gastronomica sicula fortunatamente conservati)
e alcune fotografie scattate con la sua Reflex e sviluppate per la circostanza teatrale. È dispiaciuta, Clyde Chabot, di non riuscire a parlare come vorrebbe l’italiano (molto meglio, comunque, di tanti, troppi, indigeni), tanto che ieri sera, in una replica straordinaria, ha deciso di snocciolare ricordi e visioni nella sua lingua, il francese, senza essere costretta, talvolta, a dover chiedere conferma di vocali e pronuncia agli spettatori, perché questo percorso dentro la storia e nei viaggi dei suoi trisavoli verso altre terre, Tunisia, Francia, Stati Uniti, non è stata solo una curiosità, uno sfizio, ma una lettura, indispensabile, ai fini di una corretta ricostruzione delle dinamiche migratorie e di alcune usanze che senza un’attenta lettura del passato stenteremmo a riconoscere e a capirne l’importanza del loro rispetto. Un’indagine seria, avvincente, meticolosamente documentata, portata in dote e in convivio da anelli tramandati, aspirapolveri, foto ingiallite, lesionate e restaurate e lenzuola ricamate con le iniziali, anche se per molti versi sconclusionata e sconclusionabile, che rende omaggio, e tanta tristezza, all’esodo forzoso che i siciliani hanno dovuto affrontare nel corso degli ultimi due secoli, strappando alla propria isola una moltitudine innumerevole di indigeni, che sono scappati e risorti altrove, cercando di far perdere le tracce delle proprie mittenze, soprattutto in relazione alle oggettive difficoltà incontrate nelle terre che li hanno, spesso malvolentieri, ospitati. Come le raccomandazioni della nonna per il giorno più importante delle nipoti, quello del matrimonio, ovunque si trovassero: vestitevi di bianco e siate, per tutta la vita, la donna di un uomo solo, vostro marito, onesto e diritto. È un invito indotto alla tolleranza, all’accoglienza delle quali facciamo bene ad armarci e una preghiera, noi che ora ospitiamo, a difendere, come se fossero nostre, le origini dei nostri nuovi vicini di casa. Ci permettiamo, prima di congedarci, di dedicare questa nostra recensione al sorriso di Maria Rosa Ottati, donna storica del Metastasio, che non incontreremo più.
