PRATO. Claustrofobico, dall’inizio alla fine, senza speranza. A poco e nulla serve l’improvvisa visita dell’amico/amante adolescenziale, l’arrivo della figlia e del genero detestato e la degna sepoltura del cane ammazzato a fucilate dal vicino. La famiglia matriarcale (il padre non è contemplato: è morto, probabilmente, o non è mai esistito) norvegese fotografata e condannata a vivere nel salone della casa con un’unica fonte di luce e contatto con il mondo rappresentata dal proiettore 5.000watt/ finestra è il prototipo ideale e disumano di globalizzazione che l’autore, Jon Fosse, un genio contemporaneo della drammaturgia, ha voluto offrire, con il suo Cani morti, nudo e crudo, dislessico, disgiunto e disarcionato, al teatro, affinché quest’ultimo se ne impossessasse per riciclarlo, così com’è nato, al pubblico. E il giovanissimo regista neodiplomato alla Silvio D’amico, Carmelo Alù, seppur figlio legittimo del beckettiano Massimiliano Civica, ha capito letteralmente, più che perfettamente, la lezione,

confidando, in questa trasposizione, nel minimalismo del suo cast, composto da una madre speciale, la professoressa Alessandra Bedino e quattro giovani allievi ai quali auguriamo il bene e il meglio: Caterina Fornaciai (iniziamo da lei, per piacevole e doverosa cavalleria, ma anche perché così impone l’ordine alfabetico), Emanuele Linfatti, Domenico Macrì e Daniele Paoloni. In questo progetto sono in più d’uno, a crederci, a cominciare dal Teatro Metastasio di Prato, che ha deciso, con il coraggio e la lungimiranza che lo contraddistingue da tempo, di produrlo e offrire loro, al Magnolfi (ultime repliche stasera, alle 19,30 e domani, 23 dicembre alle 16,30) il battesimo in prima nazionale, aprendo la strada a tutte le repliche che seguiranno. Il testo è decisamente poco masticabile, ancor meno digeribile: un figlio e sua madre sono preoccupati perché il cane, un bastardino marrone con un pedigree inesistente, è improvvisamente scomparso da casa, lui che è sempre stato umilmente al guinzaglio. L’ansia sale con il trascorrere del tempo, delle visite e dell’insostenibile pesantezza del nichilismo che regna nell’abitazione, ridotta ad una sala spoglia sulla quale la scenografia sferza ulteriori stilettate di aridità. Il nonsenso monta con flemmatica rapidità, senza mai diventare protagonista: la mamma è assillata dall’urgenza di comprare il caffè e di vedere il figlio staccarsi dal cordone ombelicale; il figlio, a sua volta, scosso, ma paralizzato, dall’improvvisa scomparsa del suo cane, unico essere con il quale, dopo aver frustrato la propria omosessualità in gioventù, riesce ad avere legami; la figlia, salvatasi in tempo dal sadomasochismo familiare, si è però consegnata all’amore di uno spregevole e detestabile cinico. L’unico, del quadretto nordico, che sembra possedere tutte le carte in regola per rivendicare una presunta normalità, è l’amico, che capisce presto, dopo la prima visita, a distanza di tanti anni, che l’immobilismo del compagno dei suoi giochi giovanili e la sua famiglia sono restati esattamente al solito posto e che dunque è meglio evitare. Il minimalismo dell’abitazione è lo specchio, tragicomico, della perdita, inesorabile, da parte di chi ci vive dentro, delle proprie aspirazioni, che si riducono a elementi primari di pura sopravvivenza, ognuno sorretto, nella propria follia, da logiche contraddittorie, beffarde ragioni e improbabili soluzioni. Una lettura delicatissima e rischiosissima, quella del testo di Jon Fosse, l’Ibsen del terzo millennio, favorito e facilitato, nei suoi proclami, da una società che si sta ulteriormente disfacendo e un teatro, saprofitico, che ringrazia.

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