PRATO. Le cose serie, spesso letali, sono alle spalle e, quando si può ancora progettare, nel futuro, oltre le sbarre. Durante, è solo tempo fine a se stesso, che deve trascorrere, senza senso. E senza fare buonismo demagogico, è pure giusto così; anzi, spesso, è quasi troppo. Sarebbe infatti interessante radiografare l’intimità di Robert Da Ponte, uno dei detenuti del carcere La Dogaia di Prato che ha avuto la disdetta/fortuna di incontrare, durante la sua domiciliazione coatta, Livia Gionfrida, con la quale ha diviso e condiviso uno dei tanti progetti artistici di Teatro Metropopolare. Perché prima di parlare di Teatro e della sua performance Talking crap, al Magnolfi di Prato, bisognerebbe, per doveri cronologici e di giustizia, fare un passo indietro. Ma non è questa la sede. Qui, si racconta il narrabile e nello specifico, sono fesserie, quelle che riescono a tenere in vita, per svariati motivi, un sacco di gente: Robert Da Ponte e i suoi colleghi detenuti, prima di tutti, ma anche la regista Livia Gionfrida e lo staff di Teatro Metropopolare, come Giulia Aiazzi, Paolo Gruni, Michele Percopo, Marco Cecchi, Alice Mangano e Laura Meffe,

che hanno avuto l’indispensabile collaborazione e sostegno della Casa circondariale pratese e della Regione Toscana e del Comune di Prato. Deus ex machina, Samuel Beckett, ispiratore invisibile, ma tangibilissimo, di questo laboriosissimo lavoro che va ben oltre il teatro, la parola, le suggestioni. Occorre concentrare, nello spazio ridottissimo di un tempo senza tempo e di una libertà giustamente condizionata, se non mutilata, la memoria e le sue funzioni, utilizzando, indispensabilmente, tutto quel pochissimo che si può e che, quasi sempre, finisce per essere semplicemente virtuale, dunque, fantastico. Il peggio, per Robert Da Ponte, sembra essere passato, anche se i conti con la giustizia non sono ancora del tutto saldati. Quando si presenta sul palco, è elegantemente vestito di grigio, con tanto di cravatta scura. Ma le fesserie di cui vuole e deve parlare appartengono al suo passato e a quello di tutti i detenuti di ogni angolo del Mondo e allora, è necessario che si svesta dei suoi abiti civili e legali e rindossi la maleodorante tenuta. Alle sue spalle, la scenografia ha già provveduto a ospitarlo nei suoi indimenticabili pochi metri quadrati, dove la scansione temporale ed emotiva è ordinatamente raccolta all’interno di scatoloni numerati, che non seguono, tassonomicamente, una progressione cronologica: per scandire i tempi e le epoche, c’è un registratore, con il quale il protagonista ha stabilito un rapporto così intimo da riuscire a imitarne i rumori; dello start, dello stop, del riavvolgimento del nastro. Sono fesserie scollegate, confuse, rivissute con emozioni spesso inappropriate: l’interrogatorio; il primo bacio, in fondo al pullman, durante la gita scolastica; la morte e il funerale della madre, al quale ha preferito non andare; la visita medica per il Vietnam, scappatoia mortale alla detenzione; il tentato suicidio, pur di non partire per Saigon e la confidenza con la parola, il gesto, l’armonia, il teatro. È su questo che ha lavorato Livia Gionfrida, spostando, letteralmente, il baricentro dei suoi studenti, portandolo fuori, senza controlli, dalle naturali dimensioni, riconsegnando a loro la forza della memoria, alle banane quella del potassio e al teatro quella dell’emozione.

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