FIRENZE. L’esistenzialismo, se non amletico, ma almeno quello brechtiano, non gli si addice moltissimo. Alessandro Riccio, infaticabile trasformista, dopo aver inanellato incredibili ma meritatissimi successi, che sono quelli che gli impongono lo straordinario di un replica non contemplata sabato 26 gennaio, alle 18, sempre al Teatro di Rifredi, dove si esibirà da stasera fino a domenica pomeriggio 27 gennaio in Serrature, si è voluto maldestramente sgrezzare, perdendo, a nostro avviso, quella carica umana, pittoresca, simbolica e fumettistica che lo contraddistingue. I tutto esaurito che si sono registrati non appena si è aperta l’asta delle vendite dei tagliandi della rappresentazione dimostrano, insindacabilmente, l’affettuosa stima che in particolare il pubblico fiorentino gli tributa da parecchie stagioni, un’affezione quasi da stadio che non richiama nei teatri dove vanno in scena i suoi spettacoli solo e soltanto gli ultrà, lo zoccolo duro dei suoi fan, ma anche e soprattutto i parenti, i conoscenti, gli affini e i curiosi degli irriducibili, che riempiono gli stadi in tutti i loro anelli, non solo in Curva.

La storia di Giulio, però, Giulio Spadon, infaticabile e prestigioso architetto quarantenne che presta spumeggiante e impagabile servizio in uno studio professionale da diciassette anni, punto nevralgico di riferimento professionale di colleghi e rivali, ma anche insostituibile perno affettivo per la moglie, il figlio, gli amici e tutti quelli che lo conoscono, che cede improvvisamente al proprio rigore e crolla inesorabilmente nella stravaganza preludio della follia, non ci convince del tutto. Non è il surrealismo strisciante o la fantascienza virtuale del testo, manufatto ricciano doc, a indurci alla titubanza, ma è proprio l’incarnazione attoriale a lasciarci un poco perplessi. I cinque punti cardinali sui quali rimbalza a molla per l’intera durata della rappresentazione con il solito brillante atletismo (Piera Dabizzi, Daniela D’Argenio Donati – preziosa sostituta, all’ulimora, di Vania Rotondi -, Vieri Raddi, Amerigo Fontani e Francesco Gabbrielli) e che sono, senza incontrarsi o incrociarsi mai, il datore di lavoro, la moglie, l’analista, il figlio e un amico esasperano, forse, il ricciocentrismo, appesantendo, probabilmente, e innaturalmente, la sua rinomata, apprezzata e applaudita leggerezza. È la prima volta, da quando ne seguiamo le performances, che notiamo, per Alessandro Riccio, la fatica del lavoro, la stanchezza delle prove, l’ansia della riuscita; è la prima volta che non scivola, come al solito, fino alla fine, con quell’inesorabile simpatia e naturalezza che hanno costellato gli applausi ai suoi spettacoli. Ci auguriamo davvero, per lui, professionista serissimo, persona adorabile, poliedrico recitatore, e per noi, spettatori privilegiati con posti riservati gratis, ma anche per quelli che la poltrona la pagano, che torni quanto prima a rimisurarsi con il proprio artigianato teatrale, quello che nasce dall’attenta osservazione di un mondo che gira intorno a chiunque, ma che viene captato e riprodotto solo da quelli che ne hanno la facoltà, ludica e agnostica, di provare a raccontarlo. Certo, anche Serrature mette sotto la lente di ingrandimento vizi privati e pubbliche virtù di quest'epoca illuminata dai fasci di luce dei cellulari che non si spegnono mai, ma lo fa partendo da un presupposto che stride con i colori carnevaleschi e da cartoni animati classici del suo teatro, che si esalta di più quando il protagonista indiscusso è la storia che viene raccontata e lui, il buffo cronista, il ripetitore semiserio, l'inviato precario e alticcio sul fronte di guerra e quando al suo fianco, ad esempio, siede una prima donna come Gaia Nanni, tanto per fare un nome, una collega e compagna di scena che vale, letteralmente, la sua esuberanza e che gli consente, ogni tanto, di fermarsi a guardare.

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