
PRATO. Anche Luca Cottone, quando gli chiedevano come stesse, lui rispondeva sempre: male, non sono mica scemo. Ma erano altri tempi, qualche generazione fa. Oggi è diverso; è tutto più tremendamente facile, anche se tutto è più maledettamente difficile che succeda, soprattutto la felicità. L’unica cosa che è rimasta la stessa, è il malessere, quello che di vivere a volte si è incontrato e si incontra sempre più frequentemente, quasi tutti i giorni. Soprattutto in rete. Sì, perché questa è la generazione informatica, dislessica, ma telematica e prima o poi, durante la giornata, un salto in piazza lo fanno tutti. E qui, siamo onesti, nani e ballerine, spiantati e cocainomani, intellettuali e cubiste, atleti e claudicanti, sono tutti affratellati da un unico senso di desolazione, che è il malessere; della solitudine. Riccardo Goretti, Stefano Cenci e Lorenzo Colapesce Urciullo, guidati da un ex Omino ad origine controllata, hanno centrato in pieno il nichilismo ossessivo generazionale, mettendo in scena Stanno tutti male, che proprio in questi giorni (fino a domenica 3 febbraio, con due repliche straordinarie) sarà al Fabbrichino di Prato in prima nazionale, a tastare con mano la vis attoriale del teatro contemporaneo.
Alla prima, solo applausi, sinceri, non solo di incoraggiamento, visto che per il battesimo la platea gongolava di amici, colleghi, critici e simpatizzanti, pubblico che non fa testo, o che rappresenta un indice disattendibile, che è quello dei crocchi intellettuali, dei premi Ubu e degli spettinati ad arte. Ma si sente la ricerca, si percepisce lo studio, si notano i dettagli, ci si intenerisce ai messaggi nelle bottiglie, si sorride al keatonismo, ci si ritrova, fino a confonderci, nei goffi viaggi di tacchino della nostra gioventù, da zenit e nadir, alla ricerca della pietra filosofale, si apprezza, senza se e senza ma, la preparazione musicale e si percorre, con i tre mattatori, l’ora e mezzo di percorso a ostacoli, ricco di trabocchetti con i quali gli autori stessi hanno disseminato il viaggio, ricordando perfettamente, al momento opportuno, dove si trovassero, annullandoli brillantemente e strappando, in più di un’occasione, il libero e deontologicamente scorretto battito di mani. A questo karaoke sgraziato, consumato in una balera dimenticata ma ristrutturata per la bisogna, dove si fuma, si beve (rotti e scurregge possono sottintendersi, ma ci stanno tutte), si balla malissimo, ci si concedono licenze da stadio e da bar, il Teatro Metastasio, che l’ha prodotto con laCoz, ci crede molto. E anche noi, che siamo quel minuscolo zoccolo, troppo spesso morbido, di pubblico invitato ad assistere gratis, gli facciamo il tifo, perché un lavoro studiato con tanta dovizia cinematografica e presentato con tanta spontanea leggerezza poetica, lo merita tutto, a cominciare dalla tridimensionalità dei protagonisti: il lungo, il corto e il pacioccone, quei tre bravi cow boys, che non usan mai le pistole, perché lo sceriffo non vuole. Un infuso pericolosissimo, farcito di musiche che hanno arricchito le vostre illusioni e presunzioni, tutti quei luoghi comuni dai quali pensavate di essere immuni, appesantiti dall’incapacità di cercarvi, e dunque trovarvi, in quello che pensate possa non rappresentare la panacea, miracolosa, di tutti i vostri mali. Perché la domanda, elementare e di facile approdo, alla quale non riusciamo più a rispondere perché non riusciamo più a distinguere le due sponde, come se l’esondazione avesse cancellato i confini, è quella che guida i nostri istinti, le nostre perplessità, i nostri raptus, le nostre schizofrenie, la nostra irrequietezza: ma come stiamo, veramente? Attenti, perché gli spari, sopra, sono per voi, per voi che siete convinti di essere a riparo. Ma allora andateci a vederli, visto che sapete già che la cosa vi farà sorridere solo perché è la bisaccia che sta sulla schiena di quello che vi precede; ma alla fine, nonostante non vi sentiate chiamati in causa dai personaggi che vi somigliano tutti, non vi vergognate, in questa fotografia generazionale, appoggiata sul comodino dell’ingresso o chiusa nel cruscotto della macchina, o conservata tra i documenti nel portafogli, vi ci ritroverete, anche senza riconoscervi, perché siete convinti che non possiate essere voi, ma solo perché avreste voluto essere e diventare atro. E così come dividerete con il vostro vicino le risate, scopritevi il viso anche agli sguardi, anche quando verrete assaliti dalla tristezza sudamericana, quella che vi perseguiterà, più che tenervi compagnia, tutto l’anno e tutta la vita, a cavallo tra un carnevale e il successivo, per non essere riusciti a preparare, per tempo, quel carro meraviglioso.
