di Alessandra Pagliai

FIRENZE. L'incommensurabile opera I fratelli Karamazov, nella versione teatrale della Compagnia Mauri-Sturno, per la regia e la riduzione di Matteo Tarasco, al Teatro della Pergola di Firenze fino a domenica 3 febbraio (20,45 feriali; 15,45 domenica), è riuscita a metà. I Fratelli Karamazov, testamento di Fëdor Dostoevskij, ultimato pochi mesi prima di morire, da sempre considerato un capolavoro universale, amalgama di conflitti familiari, infelicità e morte, sangue e redenzione, permeato da interrogativi e certezze sull'esistenza di Dio, fin dal primo sguardo fa tremare i polsi. Dostoevskij penetra nelle vene e nel cervello di ciascuno come in quei 21 grammi chiamati anima, lo fa con un tema che non ha limiti di tempo e di spazio: la famiglia. Un padre ruvido, egoista, incapace d'amore, vittima e carnefice, la sua uccisione. Un parricidio per mano di quei fratelli tutti responsabili, ciascuno per un motivo più o meno manifesto, compreso il giovane e buon seminarista Alëša, il più piccolo dei fratelli, timorato di Dio. In quanto cristiano, porta sulle spalle la responsabilità di non aver saputo fermare tanto odio.
La versione della Compagnia Mauri-Sturno, non nuova ad affrontare le parole del grande russo, in più punti fa amare il vecchio padre Karamazov. Glauco Mauri è bravo non si discute; qui però ci sembra aver alzato il tono che accattiva le simpatie dello spettatore portandogli un sorriso, dimenticando l'orrendo e il tetro dell'ispiratore alla tragedia. Abbiamo notato inoltre la piagnucolosa passione di Dmitrij, il dimesso amore universale di Alëša, il poco spazio e la poca consistenza data ai due personaggi femminili di Katerina Ivanovna e Grušenka. Così come si è apprezzato il monologo di Roberto Sturno-Ivan, la pacata saggezza di Paolo Lorimer-Zosima, lo starec, il mistico cristiano ortodosso; la misura di Laurence Mazzoni-Smerdjakov, figura che avrebbe potuto tracimare nel grottesco. La piece annovera di certo un'altra protagonista, la riflessione religiosa, di cui l'opera dell'autore russo è costellata. Scrive Dostoevskij: ciascuno di noi è senza dubbio colpevole per tutti e per tutto ciò che accade sulla terra, non solo per la comune colpa del genere umano, ma ciascuno personalmente è colpevole per tutta l’umanità e per ogni altro singolo uomo sulla terra. Anche in questa rivisitazione teatrale, che i tagli hanno dovuto ridurre gioco forza, c'è posto per la redenzione che libera dalle passioni: quella testimoniata dal condannato Dmitrij, capro espiatorio che affronta il sacrificio al posto del fratello-servo Smerdjakov morto suicida. Dmitrij che scopre dentro di sé un uomo nuovo che risorge a vita nuova affrontando i lavori forzati e negandosi alla fuga. E la passione intellettuale di Ivan per cui tutto nella vita è possibile, anche l'omicidio, che spinge il fragile Smerdjakov a uccidere per poi indurlo a togliersi la vita. Già, le passioni, elementi presenti in tutta la storia dell'umanità che, a giudicare dal persistere delle notizie nere in cronaca che riportano delitti e reati indicibili consumati proprio in famiglia, solo in pochi sembrano averci fatto i conti. E' uno degli onori dell'Arte del Teatro e di questa Compagnia quello di scegliere e riscegliere testi collettivi che gridano: restiamo umani. L'ultima produzione della storica Compagnia Mauri-Sturno, in collaborazione con la Fondazione Teatro della Toscana, per la regia di Matteo Tarasco, oltre a Glauco Mauri e Roberto Sturno vede in scena: Paolo Lorimer, Pavel Zelinskij, Laurence Mazzoni, Luca Terracciano, Giulia Galiani, Alice Giroldini, con le scene di Francesco Ghisu, i costumi di Chiara Aversano, le musiche Giovanni Zappalorto e le luci di Alberto Biondi.
