
FIRENZE. Dai presupposti biblici e fino a quando esisterà il mondo, probabilmente, nell’unico regno animale pensante, il genere umano, la donna vivrà un’esistenza subalterna a quella dell’uomo. Non a caso, Tarzan, o Adamo, se preferite, riducono drasticamente secoli di storia e fraintendimenti e scesi nudi, dal letto di fortuna sospeso, nella civiltà, dopo essersi vestiti e incravattati, incarnano tre uomini dei nostri tempi, vittime e carnefici di loro stessi, dei ruoli a loro assegnati e dalla presunzione con la quale, più o meno inconsapevolmente, decidono di difenderli. È questo il distico generazionale, imposto in ogni angolo del mondo e a qualsiasi latitudine morale, intellettuale e religiosa, da cui discendono leggendarie convinzioni così radicate da risultare, oggettivamente, inestirpabili. Massimo Sgorbani, Giampaolo Spinato e Roberto Traverso hanno affidato al poliedrico incantatore Alex Cendron le loro rispettive sfumature che sono diventate, assemblate, Fuck Me(n), spettacolo prodotto dal Festival Mixité e da Dionisi Compagnia Teatrale, ideato da Renata Ciaravino, musicato da Paolo Coletta e con la regia di Carlo Compare, in scena venerdì 1° febbraio al Cantiere Florida di Firenze.
Un ring metallico, di incerta stabilità, dove homo sapiens, che è, contemporaneamente, un professore universitario, un vincente broker e un papà cartacarbonato, mirabilmente estratti dalle radiografie metropolitane degli ultimi cinquant’anni, agita tre storie che compongono una parte, importante, anche se non esaustiva, degli uomini, che incarnano, sempre e sistematicamente, la figura del potere, della forza, dell’astuzia, un edonismo – magari solo reaganiano – che assorbe, fino ad annullarli, tutti gli altri ruoli sociali e civili, a cominciare dalle donne, contemplate, anche se in misura riduttiva, solo in qualità di mogli. La cosa più tragicamente straordinaria è che ogni sillaba e ogni diaframma della rappresentazione sono, in realtà, una catena interminabile di luoghi comuni che in virtù della loro maniacale riproduzione finiscono per essere dei veri e propri habitat, nei quali, ormai, la società del mondo intero ha stabilmente posizionato l’uomo, con il suo cazzo, il suo sperma e i suoi inalienabili, seppur non assegnati da nessuno, diritti. E che rappresentano, automaticamente e conseguenzialmente, i doveri per tutti quelli che convivono in questa dimensione, assicurata al futuro dall’alfabetizzazione imposta ai figli maschi, a patto che questi non decidano di esondare nell’omosessualità, che resta, per fortuna, una malattia probabilmente curabile e comunque non quantificabile in alcuna percentuale sociale. Un dramma naturale al quale ci siamo abituati così silenziosamente che anche quei soggetti eretti e deputati alla ragione non sempre riescono a decodificare. Una scrittura multidimensionale, fatta di intrecci e verosimiglianze, nella quale l’onemanshow Alex Cendron esalata la propria versatilità attoriale, il sontuoso rigore temporale e una dignitosissima tenuta fisica, riuscendo a incarnare, con invidiabile camaleontismo, le tre tragiche angolazioni suggerite al testo dalle altrettante scritture, senza mettere mai fuori dal claustrofobico ring, nel quale dovrà sciorinare le tre storie, nemmeno un’ombra del proprio corpo, incarnando, in sequenza, la presunzione, l’incapacità e il dolore, che sembrano essere, così come le abbiamo cadenzate, il prologo, la storia e l’inevitabile fine alla quale questo Uomo è destinato a concludere il proprio ciclo. Un epilogo che sembra essere sempre così meno distante dal suo catastrofico avverarsi di quanto il presuntuoso sadomasochismo maschile è invece convinto di esserne lontano e soprattutto al riparo.
