
PRATO. Impossibile parlarne male; difficile, restarne stregati. L’atteggiamento neutrale che esterniamo dopo aver visto il riadattamento goldoniano, prodotto dal Teatro Stabile del Veneto, de Le baruffe chiozzotte, per la regia di Paolo Valerio, si materializza inevitabilmente nel momento delle riaccensioni delle luci del Metastasio di Prato (in replica da stasera a domenica, 10 febbraio). Un’opera eseguita senza alcuna approssimazione, con una gradevolissima libertà scenografica e condotta dall’inizio agli applausi finali con sapienza, musicalità, ordine e tanta disciplina attoriale. E non è certo il chioggiano, slang con il quale conversano i tredici del cast e con un tasso di incomprensibilità altissimo, a indurci in asettiche riflessioni; altrimenti, Emma Dante, dovrebbe stare negli inferi, anziché nell’Olimpo! Ma restiamo a Goldoni, e volentieri. Anche per tessere le lodi, uno a uno, dei protagonisti di questa commedia, che si esaltano singolarmente proprio nella misura in cui il regista riesce a generare quel senso di appartenenza collettiva al progetto.
Non ci sono prime donne, né comprimari, anche se Fortunato (Valerio Mazzuccato) gode di una marcia clownesca in più rispetto agli altri. Ma è solo un dettaglio, comico. Perché la forza dell’intera rappresentazione sta proprio nell’afflato collettivo, che li vede protagonisti sonori di un concerto semplice, ma non oratoriale, dove ognuno, anche fuori dal centro nevralgico della scena, rinchiuso nel proprio appartamento, che altro non sono che delle piccole soprasporgenze in legno ai lati dal palco seduti su delle semplicissime sedie impagliate, arricchisce il senso goliardico delle tensioni e offre, su vassoi d’argento, spunti e acredine per le baruffe successive. Gli oltre due secoli trascorsi dalla prima rappresentazione veneziana si vedono e si sentono tutti e il regista, così concentrato al regime orchestrale, amabilmente affidato ai costumi di Stefano Nicolao, le luci, essenziali, di Enrico Berardi, le musiche, opportune, perché da tormentone, di Antonio Di Pofi, i movimenti di scena di Monica Codena, le scene di Antonio Panzuto e la consulenza drammaturgica di Piermario Vescovo, ha preferito non aggiungere e togliere nulla al manoscritto originario, decidendo di affidare all’abilità attoriale di Paron Toni (Giancarlo Previati), Madonna Pasqua (Michela Martini), Lucietta (Anna Tingali), Titta Nane (Francesco Wolf), Beppo (Riccardo Gamba), Madonna Libera (Stefania Felicioli), Orsetta (Francesca Botti), Checca (Margherita Mannino), Paron Vicenzo (Leonardo De Colle), Toffolo (Luca Altavilla), il Cogitore (Piergiorgio Fasolo) e Comandatore-Canocchia (Vincenzo Tosetto) il dipanarsi della vicenda, che finisce, goldoniamente e inevitabilmente, con tutti vissero felici, contenti e sposati. Il segno, però, non lo lascia, a differenza delle donne di sala, costrette a snocciolare le proprie competenze aritmetiche per far fronte all’imbarazzo degli spettatori nel non sapere dove sedersi, visto che le targhette in metallo aureo relative alla numerazione delle poltrone sulle spalliere si sono ormai staccate da tempo, senza che nessuno si sia preoccupato di ripristinarle; e da alcuni giovani spettatori, che non hanno smesso un attimo di parlottare fra loro. In altri tempi e in un altro Paese, costoro sarebbero stati allontanati a calci nel culo, ma se fosse successo – e noi avremmo urlato: dateglieli più forte -, il Metastasio sarebbe stato messo all’indice. E noi, avremmo sollevato il medio.
