FIRENZE. Quel braccio del lago di Como è un cantiere a cielo aperto, una palazzina restata a metà, come succede spesso nel sud d’Italia, in attesa che i figli, maschi, si sposino e occupino i piani superiori, con ferri e impalcature a vista, teloni e la leggendaria non s’ha da fare scritta sul muro, che durante la rappresentazione perde la sua negazione - perché poi anche Renzo e Lucia vivranno felici e contenti, cazzo -, lasciando il posto al video di Addio ai monti, per l’inevitabile recita collettiva di stranieri dell’ultim’ora. Arriviamo decisamente tardi (lo abbiamo visto solo ieri, al Cantiere Florida, a Firenze; replica stasera, 20 febbraio, alle 21) a recensire I promessi sposi, riletto da Michele Sinisi, che decise di perseverare, tre anni fa, dopo l’orgia di consensi ricevuti con Miseria e nobiltà, conservando, oltre che la stessa formazione (Elsinor alla produzione, Francesco Asselta alla scrittura e le scenografie di Federico Biancalani) anche l’irriverenza pop di questi incauti, ma brillanti aggiornamenti. Don Abbondio (Stefano Braschi, un conto in banca sicuro), che di coraggio non ne ha mai avuto e il coraggio, uno, da solo, non se lo può dare, anche se arriva dalla platea con il piglio del protagonista per nulla timido, tra tutti, è quello che si allontana meno dal testo originario, insieme al focoso, temerario e incazzato Renzo Tramaglino (Donato Paternoster).

Ma da Lucia Mondella, che scappa in rollerblade, in poi - Don Rodrigo (Stefania Medri) è vestita di verde, sputa e muore di peste in slip, stile Caravaggio; i Bravi (Ciro Masella, Gianni D’Addario e Bruno Ricci) sono più goffi buttafuori di night di una probabilissima periferia campana, che precursori di sinistri avvertimenti da estorsori; Fra’ Cristoforo, un coraggioso e dignitoso clochard e, rilancio audace, ma simpaticissimo, alcune conversazioni: quiz televisivi, dibattiti cosmici, interrogazioni liceali, sedute tra intellettuali, per non parlare della voce narrante, seduta all’angolo del palco, che collega le fasi della narrazione e offre il microfono quando infuria la peste o la rivolta per il pane diventa sommossa -, tutti quelli che agitarono il racconto più popolare che sia mai stato scritto dalle nostre parti sono replicati in didascalie, colti nella loro essenza popolare, dunque facilmente leggibili, fino a farsi riconoscere da una miriade di spettatori. Michele Sinisi, un Innominato realisticamente laico, ma non presuntuosamente ateo, si piace, e non lo nasconde affatto, prendendosi ogni licenza possibile e immaginabile, ma con il gusto e il coraggio di chi studia e non si accontenta, correndo il rischio, ma scampandolo in pieno, di sentirsi dire che ci avevano già pensato gli altri (il trio Solenghi-Lopez-Marchesini prima di tutti e su tutti) a maramaldeggiare sul capolavoro manzoniano. Tenuto in altissima considerazione, badate bene, ma con lo spirito della vitale contestualizzazione, a voler dimostrare, soprattutto prendendo in prestito alcune vicende del poema, come lo scritto resti senza tempo, nonostante, o forse proprio per questo, gli eroi giovani e belli non ci siano e con Renzo, Lucia, don Rodrigo, gli sgherri, gli arcivescovi, l’Innominato, i monatti, gli untori e tutta la schiuma letteraria dell’ambientazione del matrimonio più sofferto e adorato della storia, ci si possa giocare, scherzare, senza togliergli nulla, senza permettersi il lusso di denigrarlo. La botta de vita, la botta de teatro impresse dal regista sono, a nostro avviso, affatto umile, una connotazione pregevole, originale, che anche didatticamente rende all’opera, datata e offerta nella sua magniloquenza, spesso spropositata, un gusto meno affettato, anche se non tutte le alchimie in circolo, soprattutto fisiche, se proprio vogliamo fare le bucce alla rappresentazione, risultano indovinatissime. E visto e considerato che corre insistente la voce che le emittenti radiofoniche, d’ora in avanti, abbiano l’obbligo di mandare in onda e in ascolto almeno una canzone italiana (Daniele, De Andrè, Dalla, Finardi, Mina, Vanoni, Giorgia e poi?) ogni tre proposte, invitiamo tutti i registi del Paese (la P maiuscola è solo di buon auspicio) ad adeguarsi, ma solo quelli in grado di non tediare (gli altri potrebbero anche smettere, che ne dite?): materiale ce n’è. In abbondanza.

Pin It