PRATO. Chiunque decida di misurarsi con il Teatro non può permettersi il lusso, sarebbero una mancanza e una lacuna imperdonabili, di non affrontare Shakespeare. Anche perché, con La bisbetica domata, una delle opere tra le più rappresentate al mondo di ogni tempo e tra tutti gli autori, ci si possono consentire una miriade di licenze. A patto che si possa fare affidamento su un cast che sappia giocare a nascondino come si deve e che all’interno dei mestieranti della bisogna si sappiano individuare gli amanti/duellanti, la vittima/carnefice, il sequestratore/rapito Caterina e Petruccio. Che Andrea Chiodi, il regista, confidando nella traduzione e nell’adattamento di Angela Demattè, ha individuato nel diaframma in falsetto di Tindaro Granata (collant, di lana, rossi; fruits nera con un inno alle ragazze) e nel machismo schietto e presuntuoso, ma pericolosissimo, di Angelo Di Genio (giubbotto di pelle nera, pancetta da chi ha smesso di andare in palestra), accompagnati, in questa esposizione al Metastasio di Prato (fino a domenica 24 febbraio), dal resto della ciurma di un apprezzatissimo bateau ivre composta da un cast tutto maschile, con Ugo Fiore, Igor Horvat, Christian La Rosa, Walter Rizzuto, Rocco Schira e Massimiliano Zampetti.
Che rispetta tempi, cronologie e finzioni originarie, anche se, come già successo per altre riletture dello stesso dramma, l’addomesticamento di Caterina non sempre rispecchia le buone maniere descritte secoli fa. Qui, sembra di assistere a una di quelle situazioni non contemplate dalla psichiatria, ma che comunque è riconosciuta e circoscritta sotto il nome di Sindrome di Stoccolma, con Caterina costretta velocemente a maritarsi e addrittura innamorarsi, nonostante le ingiustificate sottomissioni impostele dal futuro marito, per l’incedere dei corteggiamenti rivolti da più gentiluomini alla sorella minore Bianca, adorabilmente muta, già domata per censo ed esposta alle innocenti angherie della sorella che il padre Battista non può offrire in sposa a nessuno fino a quando la primo genita non troverà adeguato e consono pretendente. Gremio, Ortensio, Lucenzio, con le casacche in paillettes e con i nomi scritti sulle spalle - fantini medievali, giocatori del calcio moderno -, i loro intrecci, gli scambi di persona, tutto orchestrato sotto il terrazzo padovano della villa Minola, dove si consumano affari, si pianificano matrimoni, si decidono banchetti e si affidano le sorti delle donne ai venti degli uomini che ambiscono ai loro patrimoni, più e prima che ai loro corpi, con la consolazione, non certo effimera, della parola che ha la capacità di invertire e stravolgere l’ordine precostituito della ragione, affidata, come sempre, all’inesorabile evidenza. E quale posto più idoneo, se non il Metastasio, poteva ospitare la rappresentazione di metateatro per antonomasia? Discutibile, da un semplice punto di vista interpretativo del testo, il gioco al massacro che si consuma, ribaltandosi continuamente, tra la fiera e il suo domatore e che esalta, dopo l’indispensabile riconoscenza che si deve all’autore, l’altalena che dondola, per forza di inerzia dalla storia dei tempi, tra il potere divino consegnato agli uomini e l’astuzia laica che il destino ha necessariamente attribuito alle donne, compensando i bracci della bilancia umana e sociale che altrimenti vivrebbero, perennemente, in disequilibrio. Succede tutto in un contesto semideserto, opacizzato, all’inizio, da una semplice ma significativa dissolvenza che catapulta la compagnia della Bisbetica dal tiro burlone al burbero ubriaco fino alla sua realizzazione teatrale. Un concerto complesso, senza direttori d’orchestra, con un’autodeterminazione dei singoli strumentisti a concedersi gradevoli assoli issandosi su inaffidabili pulpiti trasportati al centro del palco dal resto dei suonatori, che aspettano, con ragionevole impazienza, il proprio turno, incalzando il susseguirsi degli avvenimenti con pregevoli prologhi musicali, che sono gli intermezzi apparentemente estranei alla disputa assoluta con la quale ci si dibatte intorno all’homo sapiens, tra le isterie del diaframma di Caterina (Tindaro Granata) e quelle, seppur stentoree, ma ondivaghe e provocatorie, flebili e irragionevoli e che finiscono per ritorcerglisi contro, di Petruccio (Angelo Di Genio). Una continua sovrapposizione e sovraesposizione di voci e situazioni che il pubblico del Metastasio, predisposto per cause dizionaristiche di forza maggiore a questo tipo di spettacoli, non ha potuto che gradire.