FIRENZE. Un po’, la faccia da maestra che ha dedicato l’intera esistenza alla scuola, dimenticando amori, famiglia, interessi, ce l’ha anche, Antonella Questa. Iniziamo così, giusto per sdrammatizzare quanto non basta, il racconto di Infanzia felice, lo spettacolo prodotto dall’Associazione Culturale LaQ-Prod (fondata nel 2005 proprio da Antonella), in collaborazione con i padroni di casa del Teatro Rifredi (dove replicherà stasera e domani pomeriggio, 24 febbraio), Pupi e Fresedde e con Armunia Centro di Residenze Artistiche Castiglioncello Festival/Inequilibrio. Lo facciamo perché il tema, troppo delicato e vitale da sempre, in particolare per le future generazioni, è uno di quelli che scottano parecchio e che quasi sempre, ma il quasi è un eufemismo, risulta decisivo. Nel bene e nel male. E non occorre andare molto lontano nel tempo, sfruttando così il distico novellistico di c’era una volta, per rintracciare e individuare nell’amore non dato, nell’ascolto non offerto, nel tempo non perso il germe della distruzione. La fiaba per adulti, sottotitolo scelto dall’autrice/regista/attrice, racconta la storia di Rossana Caramella,

maestra elementare, di una terza elementare di un Istituto scolastico un po’ fuori mano, in val Brembana, si potrebbe immaginare e supporre, dove la cosa più importante, soprattutto per la direttrice scolastica, è che non cali il numero degli iscritti, perché altrimenti la scuola verrà accorpata ad altre distribuite sul territorio e lei, un po’ alcolizzata e senza patente (ritiratale per guida in stato di ebbrezza), chissà dove la sbattono. Ma la caleidoscopica Antonella Questa non si limita a entrare nell’abito e nelle movenze, monastiche, della maestrina, quarantenne, a secco di ogni esperienza fuori dalle aule. È anche il vecchio padre, assopito e incattivito dal tempo, che confida solo con la sua Svetlania, la badante dell’Est, che ha consumato l’esistenza nel crescere i tre figli maschi più grandi, realizzati altrove, e che per lei, bruttina e con pochi numeri, di tempo, ne ha avuto davvero poco; la Preside dell’Istituto, caricatura della bassa Padana che si riscalda con ombre e grappini; la madre in carriera di uno degli scolari peggiori, uno di quei viziatelli di merda che ti levano le mani dal posto; la nonna dello stesso bambino, un’arzilla e rincretinita nonnina ringalluzzita dall’illusione di conservare l’elisir della giovinezza; il Direttore del Centro di Accoglienza, un professore di disegno pentito, che oltre che offrirle la possibilità di proseguire il proprio cammino didattico, le regala anche il fiore dell’amore, con tanto di matrimonio. Un monologo che scivola su un palcoscenico nel quale trovano spazio un piedistallo colorato, che è cattedra e saliscendi di personaggi, ma anche lapide ipotetica e cromatica di illusioni trasformati in sogni, una lavagna, sulla quale sono divisi, perfettamente a metà, i buoni e i cattivi e uno sgabello, dove inizia e muore la rappresentazione, tra sorrisi e condivisioni istantanee, che traccia e perfora il male di vivere di questo millennio: la solitudine, figlia (il)legittima del silenzio, della distrazione, del logorio di una società attenta a non farsi mancare nulla del cosmo informatico, dimentricando e sacrificando, sull’altare di questa corsa spasmodica al nulla, gli elementi più semplici e basilari della convivenza. Un’altra denuncia, non ultima, ci auguriamo, che Antonella Questa, maestrina da libro Cuore, pardon, attrice rispettatissima e applaudita, espone dal privilegiato osservatorio del teatro, quello che induce, almeno gli spettatori più attenti, a riflettere. Sulle note, semplici, se volete, ma ricche di significati, del motivo più caro della discografia di Sergio Endrigo: Ci vuole un fiore. Che alcune generazioni fa invitarono a mettere nei cannoni e che oggi faremmo bene a regalare ai nostri figli, invece dell’ultimo telefonino.

Pin It