AGLIANA (PT). L’epica ha il suo fascino, indiscutibile. Basti pensare alle gesta, appunto epiche, in quanto mitologiche, con le quali si sono combattute estenuanti battaglie, riscritti i confini degli Imperi, escogitate imprevedibili astuzie, generate caste e discendenze, partorito divinità immortali, spesso dai nomi tanto leggendari quanto impronunciabili, quasi tutti rafforzati da dittonghi, consumati amori, combinati matrimoni, ordito vendette attese decenni anche facendo ricordo ai tradimenti, consultati oracoli. Una trafila di avvenimenti conditi da intrecci spesso inestricabili di parentadi promiscui che hanno generato alberi genealogici letteralmente impossibili da ricostruire. Il fascino di esperienze così lontane e con una lentezza realizzativa insopportabile, riportate nei secoli dalle scritture classiche, quasi tutte al limite della credenza, si infrange con la loro dubbia verosimiglianza, per tracimare, inesorabilmente, nel campo degli sbadigli, generati dalla noia, che a teatro diverrebbe letale.
A patto, però, che non si affidi la ricostruzione dei fatti e i loro incastri a chi, quelle vicende inumane, le conosce così bene tanto da essere capace di gigioneggiarci, fino al punto di permettersi il lusso di storpiarne i nomi, contestualizzarli in ambienti diametralmente opposti, prima che lontani e farsi messaggero vernacolare di quelle memorabili gesta. Sì, insomma, ci vogliono I sacchi di sabbia, sotto l’egida di Massimiliano Civica, per far sì che un teatro pieno, come quello del Moderno di Agliana, in provincia di Pistoia, ascolti con religioso silenzio e crasso divertimento la sfilza di benevoli sacrilegi con i quali si riassume la vita, tormentosa e tormentata, di Andromaca (Andromàché, colei che combatte gli uomini), capolavoro del teatro di Euripide e si abbia voglia, dopo aver riso fino quasi a piangere, di dare ordine, cronologia e sintassi a quella trafila di nomi, cose, città sbeffeggiate, con cauto, ma laico, rispetto dallo spoglio palcoscenico dove Gabriele Carli, Giovanni Guerrieri, Enzo Iliano e Giulia Solano si sono dati irriverente battaglia a suon di memorabili, anzi, epiche, battute. Neottolemo, in viaggio verso l’oracolo di Apollo (avrebbe fatto meglio a restà a casa, a guardà la su’ moglie, la su’ ganza e il su’ figliolo), scatena, tra quelli restati ad attenderlo, come Ermione, Menelao, Peleo, tutti temuti dall’altare di Tetide, roccaforte neutra, una fly zone ai tempi della Guerra del Golfo, una lite furibonda. Pensate, immaginando le accese e piccanti conversazioni, che i contendenti la ragione, in attesa di affrancarsi da inevitabili cruenti sacrifici, si contendano lo scettro della ragione confabulando in pisano/livornese e in napoletano, con smorfie clownesche, improbabili travestimenti e blasfeme comparazioni. Un’autentica dissacratoria messinscena, formulata con maestria teatrale, dove la parola, i tempi, la gestualità, su uno spazio fondo e vuoto, ma agorofobico, decretano, nel pieno rispetto della veridicità e del concatenarsi degli avvenimenti, un’irresistibile e divertentissima rappresentazione a cappella, che rinuncia, per scelta, a qualsiasi tipo di orpello affidando e confidando nelle partiture dei singoli granelli tutta la potenza, che si trasforma in un susseguirsi di innumerevoli piccoli lucidissimi boati di geniale irriverenza.