PRATO. Che il Don Giovanni di Valerio Binasco non fosse e non volesse soprattutto essere un copia/incolla delle migliaia di rappresentazioni precedenti, tra irresistibili incantatori di serpenti e fascinosi dark emaciati, lo si è capito subito, dalla scelta musicale con cui si è aperto ieri sera il sipario del Metastasio di Prato (si replica oggi, 20,45, domani, 19,30 e domenica 10 marzo, 15,45) sulle note di quella controversa, criptica, biblica e demoniaca, leggendaria Stairway to Heaven, di Robert Plant. E subito dopo, una volta inquadrato nel suo delirante eccesso psicopatico il magistrale tragicomico servo Sganarello (Sergio Romano), ecco che sulla scena piomba un imprevedibile Don Giovanni (Gianluca Gobbi), camionista impomatato, rockettaro, naturalmente sovrappeso, soprattutto per l'abuso di alcool, uno che si è fatto da solo, gettando alle ortiche le doti e la morale familiare, un Don Giovanni inconsapevole di esserlo, ma arciconvinto di volerlo diventare, pur ignorandone le gesta, perché quella è l’unica strada alla sublimazione, quella che gli suggerisce l’impeto di impossessarsi delle donne, tutte, indistintamente, la successiva sempre un po’ di più della precedente, per sposarle o promettersele in spose e averle davvero.

Le conversazioni, spesso scandite in un similscannatoio tra prof e allievo, dalla cattedra (due materassi poggiati per terra) al banco (un solo materasso) attorno alle quali si consumano le due ore di teatro, tra il diavolo e l’acqua santa, la ragione e l’impulso, la sfrontatezza e la remissione, che sono i momenti migliori dell’opera, quelli che avranno convinto e indotto il Teatro Stabile di Torino e quello Nazionale a produrre lo spettacolo, rasentano, sistematicamente, il sublime, in una fedele e poetica riconsegna della parola alla parola e ai gesti che l’accompagnano. Il merito, al di là dell’indiscussa bravura e mirabile camaleontismo dei due mattatori, tra frenesia e supponenza, delirio incombente e delirio onnipotente, che si rincorrono tutto il tempo avviluppati da un elastico che li rimbalza, come pugili, suonati e suonatori, da un lato all’altro del ring, sta tutto in quell’artigianato sopraffino che è la scuola, lo studio e l’esperienza del maniscalco Valerio Binasco, che detesta i giochi di prestigio, ma che conosce perfettamente il proprio lavoro ed esige che il ferro prenda la curvatura che desidera, costi quel che costi. Senza alcuna presunzione di sovrapposizione: il testo è integro, tassonomicamente rispettati tempi e modi, ma chiedendo al personaggio di fingere di non conoscere, prima che dimenticare, se stesso per provare a diventarlo. Un altro Don Giovanni, probabilmente, ma terribilmente verosimile, maniacalmente epicureo, che irride la religione e le sue strutture, la famiglia e i suoi meccanismi piramidali, il rispetto e la coerenza, l’amore dato e non quello autoproclamato, che scherza con la vita senza sapere di morire, che cerca sollievo, trovandolo, solo nel ricompensare la sua ansia da prestazione, che è quella che scaturisce dall’incontro femminile, che diventa illuminazione, folgorazione e puntualmente resurrezione. Non è un gentiluomo, né un affabulatore questo nostro tombeur de femme, disposto al sadismo, ma un coatto qualsiasi, un lurido impostore, un delinquente ignaro della propria malvagità, viscido, senza divinità e demoni, paure e punti di riferimento, capace di tutto, senza memoria, che ignora il rischio, più che disprezzarlo, perché conosce solo la propria strada e non sa rinunciare a nulla in nome del proprio benessere. Accanto al suo smisurato ego, spettatori e vittime, parecchi dei quali poveri diavoli in cerca di riscatto e fortuna e tutta quella massa umana informe che gli si para dinnanzi: donna Elvira (Giordana Faggiano), Charlotte (Elena Gigliotti), Maturina (Marta Cortellazzo Weil), Pierrot (Lucio de Francesco), Don Carlos (Fulvio Pepe), Don Alonso (Fulvio Camarota), Don Luigi (Fabrizio Contri) e Giusmano (Ivan Zerbinati), che giocano istericamente sul fronte bellico delle lusinghe del loro carnefice, al quale vorrebbero concedersi anima e corpo, salvo poi pentirsene all’istante. Il suo unico inattendibile interlocutore, l’unico forse esentato dalla spianata indiscriminata di uomini e cose, anime e cuori, è Sganarello, servo meschino, seppur anfetaminico, che prova a tenere alla lontana e al riparo tutte le vittime più o meno conclamate del suo padrone, esaltando la propria viscida paura di trovarsi, improvvisamente, senza arte, né parte, più che morto ammazzato, in un buffo, irritante e commovente crescendo sindromatico. Un testo ridefinito per consegnare alla parola e alla sua immedesimazione tutta la forza del teatro, che è quello che lusinga gli spettatori, capace di catapultare questi ultimi sulla giostra di un testo così antico, noto, da essere quasi sacro, ma ancora capace di meravigliarsi, promettendo di cambiare. Poi.   

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