FIRENZE. Immacolata Concezione è una pagina coraggiosa, vera, realista, che trasuda bellezza da tutti i pori, dall’inizio alla fine, che impone un’implosione di tenerezza, alla quale abbiamo dato libero sfogo solo all’uscita, lontano dalle altrui emozioni, piangendo a dirotto. Immacolata concezione è uno di quegli spettacoli che non si devono in alcun modo perdere, perché è delittuoso non vedere all’opera Concetta (Federica Carruba Toscano), ideatrice di questa novella creata dal Teatro della Vuccirìa - prodotta dalla Fondazione del Teatro di Napoli e dal Teatro Bellini e affidata alla regia di Joele Anastasi -, trascinata nuda, come una cavalla da monta o una mucca da mungere, con una corda al collo, dal fondo del Teatro di Rifredi (stasera, 9 marzo, ultima replica: vi consigliamo, spudoratamente, di andare a vederlo) fino sul palcoscenico, accompagnata dagli schiamazzi, dalle urla e dai fischi pecorari dei suoi vecchi proprietari, i genitori, che la barattano a DonnaAnna, meretrice di un bordello, che in cambio di questa puledra vergine anche un po’ ritardata perché inspiegabilmente felice e con un seno spropositato offre la sua capra, gravida e piena di latte.

Siamo in Sicilia, alle porte della seconda guerra mondiale, con il Fascismo che offre il peggio del suo regime. Ma siamo anche a Teatro, e nel terzo millennio, e siamo sempre meno inclini a lasciarci perforare, anima e cuore, da una piccola storia ignobile, che riserva e dispensa ai protagonisti e agli spettatori un’inquietante tenerezza, un disperato appello di pace. Ha parole mute per tutti, l’ultima giovanissima prostituta del bordello, una giostra circolare con le tendine a garantire privacy, nel quale entrano e escono, impazienti e in fila, tutti i clienti, ignara di tutte le accortezze erotiche, ma rispettosa del tacito decalogo consegnatole da DonnaAnna: dal signorotto al parroco del Paese, dalla tenutaria ai clienti (Alessandro Lui, Enrico Sortino, Joele Anastasi e Ivano Picciallo), soprattutto loro che una puttana così bella, felice e sprovveduta, non l’avevano mai vista prima, né l’avevano potuta nemmeno immaginare. Una Bocca di Rosa al contrario, anche se tutti, dal Commissario al Sacrestano, il suo bene effimero - effimero veramente, perché aleatorio - lo vogliono accanto in processione, che pensava di essere una capra da uccidere e invece scopre di essere una capra da figli. Il confessionale pubblico è intermittente; fuori dal bordello si ritrovano i clienti, che si raccontano e confidano le loro rispettive primizie, fatte di carezze, sorrisi, frutta in abbondanza, ma mai sesso, perché nessuno, nonostante tutti stravedano per quelle puppe meravigliose, l’ha mai toccata. Succede al bar del paese, dove si sfogliano i giornali, si commentano le notizie, al ritmo della musica prodotta dalla carta dei quotidiani, un rito tribale, interrotto solo dai fischi di Concetta che saluta le sue capre e dalla novella, divenuta leggenda, di Colapesce, quella che Turi, un orfano pieno di speranze, allevato dal ras della zona, le racconta durante le loro intimità, fino al suo tragico epilogo, quando la violenta e la ingravida nell’unico giorno di libertà concesso a lei e alle sue colleghe, quello del giorno della festa paesana. Non è la prima volta che Joele Anastasi e il Teatro della Vuccirìa si imbattono in queste narrazioni regionali; era già successo, e ogni volta sono passati da Rifredi, con Io mai niente con nessuno avevo fatto e Battuage, altre due pagine, minori e indimenticabili proprio come questo racconto. Ricco di poesia, musicalità, candore e fierezza, bestialità e passione, terrore e spregiudicatezza, quella suggerita dall’inconsapevole imbattibilità della vita e dell’amore, che raggiunge un apice oseremmo dire emmadantiano nella sua beatificazione, con Turi a dondolarsi il figlio neonato tra le braccia e con gli uomini del paese chini, come capre, a divorare nudi i mandarini, che sono il profumo emanato dalla pelle di Concetta.

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