PISTOIA. I matrimoni riparatori non sono finiti; ora, rispetto alle tecniche di inizio secolo scorso, quando Luigi Pirandello scrisse e portò in scena Il piacere dell’onestà, sono solo cambiate le procedure della finzione, ma l’ipocrisia, con la quale l’apparenza riesce in qualche modo a salvarsi, continua a farla da padrona. Alessandro Averone, consapevole che al drammaturgo siciliano ci sia ben poco da appuntare, figuriamoci da aggiungere, ha deciso che la storia del malfattore Angelo Baldovino e la sua grande occasione di liberarsi da debiti e malelingue e riscattarsi veramente, così come fu confezionata più di cento anni or sono, bastava e avanzava. Piacque molto ad Antonio Gramsci; è piaciuto parecchio a Beppe Grillo. E allora, complice il Teatro Metastasio di Prato che l’ha prodotto, in collaborazione con Knuk Company, ha convocato a sé Agata, la moglie del riscatto, sua madre, il marchese Fabio Colli, ammogliato, ma padre del bambino di Agata, il suo vecchio compagno di scuola e il parroco battesimale (Laura Mazzi, Alessia Giangiuliani, Marco Quaglia, Gabriele Sabatini e Mauro Santopietro) e con loro, al Teatro Manzoni di Pistoia (si replica oggi, domenica 17 marzo, alle 16),

ha portato in scena, flebilmente contestualizzato, ma egregiamente rappresentato, uno dei tre drammi borghesi di Pirandello (Pensaci Giacomino e Ma non è una cosa seria sono gli altri due) nei quali un finto matrimonio interagisce provvidenzialmente sull’apparenza, costringendo però tutti i protagonisti a togliersi inevitabilmente la maschera. I conti teatrali tornano tutti, alla perfezione: i dialoghi, talvolta estenuanti e solo in rarissime circostanze stemperati da un umorismo che sarebbe potuto correre a questi in soccorso con più frequenza, sono l’insostituibile concime con il quale si alimenta la menzogna, che farà saltare in aria tutti i meccanismi e costringere tutte le marionette del palco a staccarsi dai fili che sorreggono le loro falsità, obbligandoli a spogliarsi dalla propria ipocrisia. Angelo Baldovino, comunque, il regista/mattatore, lo incarna esemplarmente, soprattutto prima e dopo, quando per circostanza convenzionale è costretto a difendersi nella propria corazza di manigoldo filosofo incompreso e poi, intenerito dal coraggio di Agata, quando, seppur ligio alla sua scommessa esistenziale, non riesce a trattenere la passione che gli fa scoprire che dentro quella moglie di circostanza c’è una donna coraggiosissima disposta a seguirlo in capo al mondo. Così come non fanno una piega l’allegro isterismo di Laura Mazzi, la madre, corrosa dalla necessità di non far trapelare lo scandalo della maternità della figlia, ma ancora abilissima, perché piacente, nella pratica, sin troppo disinvolta, delle lusinghe femminili; la detestabile mollezza di Marco Quaglia (marchese Fabio Colli), l’essere più spregevole della messinscena, che non ha il coraggio di dire alla moglie l’amore concubino che lo lega ad Agata, la sua nascosta paternità e le detestabili scorciatoie ideate per salvare la facciata e liberarsi dell’incomodo; lo squallido opportunismo di Mauro Santopietro, l’amico liceale, deplorevole mediatore di un’irriverente combine e il patetico donabbondismo di Gabriele Sabatini, il parroco, incapace di schierarsi. Un Luigi Pirandello che continua a stupire per la sua straordinaria lungimiranza e contemporaneità e un Alessandro Averone che conferma il proprio stato di grazia e non tradisce, minimamente, le aspettative: lo scriviamo con piacere, onestamente.

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