
PRATO. Un personaggio come Jan Fabre non ha bisogno di altro per essere spettacolo. È già estremo, quanto basta, alcune volte anche con eccessi chirurgici, che sembrano essere stati pianificati dal sistema, così come si prepara una macchina per la guerra dello stupore. Lino Musella, però, onemanshow di The night writer, Giornale notturno (al Fabbrichino di Prato fino a domenica prossima, 24 marzo), (ri)lettura di alcuni spunti dell’onnivoro belga, riesce, perfettamente, a sottrarre qualcosa alla sua non sempre comprovata polivalenza artistica per accrescere ulteriormente la propria certificata vis teatrale. Un’operazione saprofitica esemplare: ridurre all’essenziale – citando date e appunti come un navigato speaker telegiornalistico psicopatico – le informazioni e lavorare su queste alla ricerca di una traiettoria che ne garantisca un profilo sufficientemente contorto e maledetto e un approdo dispensatore di consensi e applausi. Sullo sfondo della sala della diretta, che ha tutte le sembianze di un paesaggio lunare sul quale sono appoggiate e spiccano alcune staine, neologismo utile a una sottile, seppur prevedibile, battuta in quarta, Lino Musella, alfabetizzato alla movenza del viso, delle mani e dei piedi da Michela Lucenti e glorificato da Antonio Latella in quel capolavoro, senza se e senza ma, che è Natale in casa Cupiello,
decompone sapientemente la formazione temporale degli estenuanti tour de force di Jan Fabre proponendo alcune sue riflessioni che appartengono alla sua indole preferita, quella che si agita la notte, tra sigarette mangiate, anziché fumate, bicchieri d’acqua e ombre di grappa, crisi epilettiche compulsive e la consapevolezza che la morte resti comunque l’unico, insindacabile e inappuntabile, atto di giustizia. Lo fa seduto dietro alla sua scrivania in vetro trasparente, con alle spalle un fondale spesso inquietante, di un’Anversa metallurgica e sottoproletaria, attraversata dalla Schelda, che dalla Francia al Mar Nero si porta dietro le oppressioni di parecchi popoli, soggiogati dal regime esistenziale che rende loro, e parecchi dei loro consimili, costretti alla vita e ai suoi innumerevoli (dis)piaceri. Jan Fabre è principalmente un performer, branchia visiva, la sua, che conserva intatti nel loro dubbio più atroce ed estremo tutti gli interrogativi: è arte? Il dibattito che ne consegue ormai da decenni, linfa critica vitale che ne certifica inoppugnabilmente comunque l’esistenza, dunque anche la sua collocazione, sembra destinata a non trovare sbocchi risolutivi e categorici; i detrattori continuano a ignorarla, i fautori, a esaltarla, con un’assenza cronica di giudizi intermedi che sembrano non contemplare altro a questo forzoso e conflittuale dualismo. Nel mezzo però, quando una serie di coincidenze lo permettono e in questa circostanza rispondono ai nomi del musicista Stefan Kamil Carlens, dei drammaturgi Miet Martens e Sigrid Bousset, del traduttore Franco Paris, prodotti da Troubleyn, in coproduzione con Fog Triennale Milano Performing Arts, LugarnoInScena, Teatro Metastasio di Prato, Teatro Piemonte Europa, Marche Teatro, Teatro Stabile del Veneto e tutto converge attorno agli attacchi misantropici, decadenti, catartici e resurrezionali di Lino Musella, anche l’incerta attendibilità culturale della mittenza plana sull’indiscutibile affabilità professionale del destinatario, con il risultato, evidente e inoppugnabile, che il teatro, quello della parola e quello dei silenzi, resta e sarà sempre un’ancora di salvezza.
