FIRENZE. È stato uno degli autori che non potevano mancare nei circoli rivoluzionari; rigorosamente. Oltre a Samuel Beckett e la sua Aspettando Godot, negli anni delle illusioni finite malissimo, gli altri insostituibili erano Heinrich Boll (Opinioni di un clown) e Hermann Hesse (Siddhartha), che formavano la triade generazionale di quelli che sostenevano che non succede, ma se succede…Non è successo, d’accordo, ma per fortuna, quei libri, oltre ad averli letti, li abbiamo soprattutto riletti e nel tempo, l’effetto, anziché limitarsi a vivacchiare e rimbalzare da un decennio al successivo, si è andato addirittura fortificando, aumentando ulteriormente rammarico e nostalgie. Le nostre, ma non quelle di Maurizio Scaparro, il regista e dei protagonisti (Antonio Salines, Luciano Virgilio, Edoardo Siravo, Fabrizio Bordignon e Gabriele Cicirello) dell’omonimo capolavoro del filosofo irlandese, naturalizzato francese, riadattato, grazie al Teatro Biondo di Palermo e alla Fondazione Teatro della Toscana, per i palcoscenici italiani, come quello fiorentino della Pergola, che li ospiterà fino a domani, 28 marzo.

Loro, Godot, che è il luogo dell’imminenza, dell’immanenza, seppur lo attenderanno fino alla morte, come tutti quelli che hanno avuto l’opportunità e la volontà di voler sapere e anche capire, magari, lo hanno più volte incontrato e, puntualmente, fattici i conti. All’insegna dell’elogio della lentezza, giammai della stoltizia, con quelle deambulazioni antiche, stanche, cariche di peso e fatica, ma rinfrescate, amorevolmente, dalla passione di domani, non solo per il teatro, che è veramente una panacea all’inesorabile tramonto, un efficacissimo rimedio allo stordimento, un grido che resta stridulo e percettibilissimo nonostante le corde vocali non siano più in grado di fare da consona cassa di risonanza. Siamo ovunque, su un palcoscenico obliquo (la maledizione di Gabriele Lavia, per i reduci da ogni Vietnam, è ormai un dato di fatto) dove tutto è già passato, compreso il tempo, che decide di continuare a dare segni vitali grazie alla presenza di un salice piangente, che popola di fronde un suo ramo in una sola notte, quella che dovrà passare per i due inseparati e inseparabili amici (Antonio Salines e Luaciano Virgilio, Vladimiro ed Estragone, Didi e Gogo) aspettando Godot e nell’augurio che anche il giorno successivo non compaia, improvvisamente, il messaggero (Gabriele Cicirello) a dare notizia di un altro, nuovo, ma ormai sempiterno, rinvio. Anche Pozzo e Lucky (Edoardo Siravo e Fabrizio Bordignon), il padrone e il suo servo, ridotto in elettrica schiavitù da una semplice corda al collo, che continua a esercitare il proprio fascino a comando, ma solo se con il cappello in testa, anche se non in attesa di nulla, Godot compreso, non sono in nessun tempo, se non quello virtualmente vissuto, ma del quale non si ha presenza, ricordo, se non confidando nella memoria, che fa puntualmente acqua, confondendo nomi, stagioni, paure, aspettative. I dialoghi sono surreali, british fin nel midollo, caustici e ironici, con l’inevitabile e inesorabile approdo al nulla che ricomporrà i nostri sogni e al nulla che ha preceduto il nostro arrivo, in un meraviglioso ralenty, nel quale l’unico senso di cui si è alla ricerca è quello da dare all’attesa, per qualcosa che ognuno di noi, bene o male, meriti che gli succeda. Sì, certo, al cospetto di un (capo)lavoro tanto malleabile si poteva, si potrebbe e si può sicuramente intervenire, stravolgendo uomini e quelle poche, pochissime cose, comunque paradossalmente superflue, con le quali i protagonisti sono costretti a sopravvivere. Resta comunque la poesia di una vita trascorsa sui palcoscenici; aspettando, aspettando Godot, ma anche di morire.

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