
FIRENZE. Da ottima e dotta teatrante quale è e che non ha alcuna intenzione di nascondere, per invocare un inevitabile ritorno alla civiltà femminile, più che matriarcale, Marta Cuscunà si è presa la licenza di rovistare tra gli annali storiografici delle civiltà ladine riportando in luce, oltre che liberarla dalla polvere, la leggenda del mito di Fanes, quella popolazione gemellata con le marmotte che vive nascosta tra i fondali del lago di Braies e la valle del Cadore, posti cari tanto al giornalista antropologo austriaco Karl Felix Wolff, a cui si deve la modernizzazione di quelle leggende sepolte in attesa di resurrezione, quanto a Walter Bonatti e Reinhold Messner, scalatori indefessi che con Dolasilla, figlia della regina che sposò uno straniero che la trasformò da umile ancella in indomita guerriera, gettando nel vortice dell’astio bellico la pacifica comunità di Fanes, hanno fatto i conti una vita intera, ogni volta che si sono avvicinati a una parete, ferrandola per i posteri dilettanti, o conquistandone le cime in religioso, ma laico, silenzio.
Terminata la premessa, doverosa per cronaca teatrale e giudiziaria, ci addentriamo nello spettacolo, portato in scena al Cantiere Florida, a Firenze, da quella marmotta di rara potenza che risponde al nome di Marta Cuscunà, straordinaria burattinaia che alterna poesia e ventriloquo. Lo spettacolo, davanti a una platea mai così numerosa, è Il canto della caduta, che parla di quanto abbiamo premesso affidando la cronaca della rappresentazione, come al solito adorabilmente sofisticatissima, alla conversazione su rami metallici di quattro corvi, animatronici e due pupazzi/bambini, superstiti e sopravvissuti alla battaglia, che aspettano, quanto gli ingordi volatili divoratori di cadaveri, stancamente sazi di quella gratuita abbondanza, la fine delle ostilità e il ritorno alla pace. Il cuore dello spettacolo non ha certo bisogno del nostro afflato per superare, a pieni voti e taluni con lode, la frontiera del gradimento, che si popolerà di premi, soprattutto obliqui, che sfuggono alla massa, ma non ai critici; si rivolge a un pubblico preparato, civilmente evoluto, che non ha alcun bisogno di sollecitazioni per ricordarsi, prima e dopo lo show, il teatro quotidiano dal quale è stato scritturato. Però non possiamo nemmeno sottrarci – e non lo facciamo per desiderio, non perché rischieremmo, disallineandoci, di protagonismo al contrario – da un’innumerabile annotazione di pregi che la performer, anche stavolta, dopo Sorry boys, merita a piene mani e polmoni perfettamente inspirati. Marta Cuscunà è veramente geniale, per polifonia, impegno disincantato, ma militante e una straordinaria confidenza con le leggi fisiche dell’equilibrio e dello spettacolo. Una trasformista stratosferica, una doppiatrice incantevole, adorata, probabilmente, dopo questo elogio dolomitico, da Calalzo a Dobbiaco, passando dal Longarone e tutta la Valle del Cadore fino a Zuel e Cortina e poi, abbandonato il Veneto, in val Pusteria, passando dalle Tofane, Misurina, Braies e Lavaredo, oltre che da tutti quelli che popolano il teatro del terzo millennio, dove la parola riacquista tutta la propria forza, facendo però a meno dell’uomo che la conduce e riassegnando alla moltitudine, possibilmente femminile, lo scettro delle comunità, liberate, una volta e per tutte, dal machismo bellico e cruento.
