
CASALGUIDI (PT). I sensi precedono la percezione, sempre, non solo per gli stolti, o più bonariamente, per gli istintivi, ma anche per i soggetti più profondi. Guardare Laura Morante (sessantatré anni) e restare abbagliati dalla sua semplice, naturale, sconvolgente bellezza è un tutt’uno, senza soluzione di continuità. Anche se lei, della sua biochimica eleganza, della quale sarà certamente grata e soprattutto riconoscente, non sembra farne uso smodato. Anzi. Anche ieri sera, infatti, sul palco del Teatro Francini, di Casalguidi, terra che congiunge la piana pistoiese con il Montalbano, che l’ha ospitata con la sua nuova Brividi immorali, esordio letterario trasformato in reading alla bisogna, per chiudere, come meglio non avrebbe potuto, la stagione, la musa ispiratrice delle donne misteriose di Nanni Moretti era come al solito vestita affinché nessuno si accorgesse di lei, con un pallone prossemico invalicabile. Pantaloni di flanella, maglia di lanetta e giaccone, tutti abbondanti, senza scandire le forme, di lana, neri, come le scarpe (calzatura da mademoiselle del ‘700), con un leggio, i fogli sui quali c’erano i racconti estratti dall’omonimo volume (edito da La nave di Teseo)
poco distante dal mezzo della scena solo per non oscurare la violoncellista Michela Munari, che l’ha accompagnata in questa full immersion metropolitana, scandita da personaggi, vicissitudini e luoghi che appartengono al vissuto quotidiano. Brividi immorali, appunto, ma nemmen tanto, a essere onesti, soprattutto se confrontiamo le storie rocambolesche e metapsichiatriche descritte da Laura Morante con una cronaca nera selvaggia, violentissima, sadica, che ci disgusta e ci assale quotidianamente e che ben poco di tragicomico, alleniano, o morettiano, se preferite, ha. Ma con un trascorso cinematografico come il suo (Bertolucci, Moretti, Amelio, Virzì, Muccino, Avati, senza essersi mai fatta sponsorizzare dalla grazia dei suoi lineamenti, né mettendo in vendita la sua incontrovertibile giunonica bellezza), che arriva dopo l’esordio teatrale battezzato da Carmelo Bene, con magistrali interpretazioni di donne per lo più algide, come sembra esserlo anche e soprattutto nella vita privata, le è praticamente concesso tutto, anche leggerci alcuni brani del suo libro con la stessa poesia con la quale Liliana Faccioli Pintozzi (una delle migliori giornaliste italiane, in forza a Sky) racconta ai telespettatori le vicende dall’estero. Una professoressa inappuntabile, diligente, corretta, preparata, con una dizione che non risente della Maremma natia, né della Capitale che l’ha adottata, con il giusto distacco dalle cose che racconta perché nessuno possa subodorare che le possano, in un modo o in un altro, appartenere. Non a caso, il protagonista dei racconti, è puntualmente un uomo, nel bel mezzo del cammino della propria esistenza, tra sogni infranti e svaniti e una realtà inaddomesticabile, circondato da donne complici, ma abili vendicatrici, del proprio nichilismo, in una città, Roma e i suoi anonimi dintorni, che fanno da cornice a microcatastrofici eventi personali, sentimentali, tristemente generazionali. Legge con piglio e armoniosamente, ma senza addurre, lontanamente, passione, quella che ha sempre usato, almeno nella apparizioni pubbliche, con eccessiva parsimonia e che forse, anche nella vita, non le è mai servita.
