
PRATO. Ha fatto bene, una spettatrice, a fine rappresentazione, urlando più forte degli applausi, a dire grazie. Perché più di così, a teatro, in un teatro spoglio di ogni orpello, come lo è il Fabbricone di Prato (si replica oggi domenica 7 aprile, alle 15,30, imperdibile), dove ci sono una poltrona, custodita ai lati da pile di libri, dove siede un uomo (Franco Branciaroli), islamista docente universitario, in attesa di avere notizie della figlia (Marina Occhionero), che le gira nervosamente attorno, ma da oltre 5.000 chilometri di distanza, perché è scappata a Fallujah, in Irak, per stare vicino al suo uomo e a combattere la sua guerra, non si può avere. Saltiamo a piè pari tutto quello che ha voluto raccontare, dire e provare a innescare Rachide Benzine, islamologo, nuovo lettore del Corano, autore del romanzo Lettere a Nour, che è anche il titolo della rappresentazione, perché altrimenti dovremmo intavolare una seduta che inizierebbe ora senza avere una fine, anche se per noi, le religioni, sono, tutte, indistintamente, oppio (ma della peggior fatta, quello che fa venire fame chimica) per i popoli, e ci concentriamo sulle performances dei due protagonisti: un vecchio (mostro sacro) e una bambina (che diventerà una regina).
Straordinari, esemplari, carichi di una sensualità affettiva mostruosa, imbarazzante, anche se ognuno intransigentemente arroccato sulle proprie posizioni: Nour, la figlia, che ha sposato alla lettera l’indottrinamento paterno, ma che vede nella guerriglia irachena di Fallujah il proprio affrancamento dalle teorie e la messa in pratica dell’indottrinamento militante, la propria emancipazione e il padre, professore universitario, che del Corano e i suoi versi ha una visione e un’interpretazione che sono diametralmente opposti alla cruenta sanguinolente accezione militare della jihad. Padre e figlia dialogano attraverso una corrispondenza clandestina, ma comunque controllata da entrambi i regimi, intervallata da snervanti lunghissimi periodi silenziosi, forbici temporali nelle quali l’uno e l’altra proseguono indefessi a perseverare i propri credo, seppur legati, a doppio filo, dall’amore travolgente che li tiene sospesi e vicini, soprattutto dopo la morte prematura della moglie di lui e madre di lei. Questo Lettere a Nour è, veramente e letteralmente, un saggio teatrale, una lezione di diaframmi, visi, silenzi, intervalli, smorfie, tonalità, un afflato amoroso incommensurabile, un esempio di studio e applicazione, una commovente estranea immedesimazione nei personaggi, un’esplosione di bravura, un manifesto contro il bullismo, una lezione, impagabile, di abnegazione al sacrificio, un’estenuante ricerca psicofisica emotiva, uno studio, encomiabile, di come immergersi in un altro, impadronirsene e poi riuscirne senza scorie, come se nulla fosse stato. Con Franco Branciaroli c’è poco da stupirsi: rappresenta, letteralmente, quel teatro di parole, che intervengono a sugellare silenzi, a colorare sfondi grigi, a ingombrare palcoscenici spogli, a musicare sordità; per Marina Occhionero invece, seppur già subissata, così giovane, di premi e riconoscimenti, lo stupore è d’obbligo, perché ci troviamo di fronte a una forza della natura teatrale. E soprassediamo anche sul tragico epilogo della corrispondenza epistolare che chiude drammaticamente lo spettacolo perché anche e soprattutto qui avremmo da proporre una serie innumerevole di laiche obiezioni morali che potrebbero far scadere la recensione in un triviale imbarbarimento della conversazione e rimettiamo, volentieri, il dito nella piacevole piaga della sconcertante bravura dei due mattatori, che rappresentano, fisicamente, l’indimenticabile e insostituibile ancien regime recitativo e la nuova scuola che non può e non deve scrollarsi di dosso i vecchi indottrinamenti, quelli che volevano che le poesie, per capirle, andassero imparate a memoria.
