FIRENZE. Il contesto, che pare di fortuna, è oltre modo corretto invece. Il problema, è solo arrivarci, al Riva Lofts Florence, perché via Baccio Bandinelli, a Firenze, dove è il meraviglioso B&B e dove stasera (sabato 13 aprile, ore 21) si replicherà Giusto la fine del mondo, è una caccia al tesoro, un gioco dell’oca, per i quali, per chi non è pratico della zona, è indispensabile non innervosirsi. Il figliol prodigo (Riccardo Naldini), però, suo fratello e sua sorella (Roberto Gioffrè e Luisa Bosi), la cognata (Laura Croce) e la madre (Sandra Garuglieri) sembra proprio che in quell’albergo preso in prestito da Marmuris + Attodue, la produzione di questa traduzione e trasposizione teatrale di uno dei testi di Jean Luc Lagarce, ci vivano davvero. Un testo surreale, beckettiano, dal trono poetico sudamericano, che si ispira a Gabriel Garcia Marquez, che richiede uno spiccato senso semiserio della trascendenza, del qui e ora, dell’altrove e del mai, un viaggio claustrofobico, ironico, tragico, dove si scontrano l’amore e l’odio, la parentela e le sue incomprensioni, il rigore geometrico della piramide e le sue contraddizioni, il fascino dell’appartenenza e l’invidia della contiguità. Jean Luc Lagarce è uno di quegli autori con i quali è già difficile misurarsi; confrontarsi, risulta diabolico.

Per fortuna, però, c’è il teatro (e il cinema, specie in quel genio di Xavier Dolan), che compensa pigrizie e deismo e allora portiamola in scena questa confessione muta, ispirandoci all’autore e a chi, con lui, ha già fatto i conti (Luca Ronconi), chiamando in scena figuranti appropriati: una madre che finge di tacere, raccontando tutto; un figlio, il secondo genito, che ha sofferto e soffrirà sempre il fratello più grande che si è sottratto dall’eredità degli oneri di un padre morto precocemente; una sorellina che desidererebbe trovare in casa quell’armonia e quella felicità che sarà costretta a cercare altrove e una cognata, bella e austera, utile a riequilibrare gli scompensi e abile a generarli. E il figlio che torna, che non è mai partito o che non c'è mai stato; l'elastico interparentale, il figurante di se stesso, il sogno magico e la truce consapevolezza. Ma questa famiglia, dove il padre non ha fatto in tempo a scrivere le tavole dei comandamenti e ad assegnare a ciascuno il proprio posto, è la famiglia per antonomasia, che si colloca, idealmente, in un contesto e in una società piena quasi solo di famiglie come quella, come la nostra. Simona Arrighi, la regista, che si associa a Laura Croce per la drammaturgia, ha individuato alla perfezione le dinamiche di passaggio generazionali, assegnando a ciascuno dei protagonisti più che un ruolo, una funzione sociale. Una tragedia che si consuma nelle sue premesse, quando il figlio che vive lontano decide di fare ritorno a casa per comunicare a quel che resta della famiglia l’inesorabile avvicinarsi della morte. Non c’è tempo, però. E non perché la fine sopraggiunga prima di quanto si creda, ma perché nessuno ha voglia di sapere come finiranno le cose; sono tutti concentrati a vivere il presente, cercando di trasformarlo, ognuno nel proprio minuscolo anonimato, in qualcosa di epico. L’amore che tiene uniti i componenti di questo nucleo anonimo, banale, cinico, circense, si ritorce contro se stesso, generando incomprensioni, malintesi, fraintendimenti. Ognuno è sul punto di pronunciare la parola magica, definitiva: tutti, però, tacciono, preferendo rimandare ad altra data, ad altro contesto e a un tempo indefinito e indefinibile, il proprio verdetto, la propria sentenza. Belli i silenzi, gli sguardi, gli scatti incontrollati, le fisionomie, gli abbigliamenti, i colori incastonati nei corpi mirabilmente idealtipici dei cinque protagonisti, che sono esattamente quello che rappresentano, anche se rappresentano esattamente tutto lo scibile e l’apparibile, che non possono, in alcun modo, sottrarsi al teatro, ovviamente. Un testo dallo spudorato sapore autobiografico per l'autore che sfugge alla sua contestualizzazione, che sembra essere stato mutilato della sua premessa e del suo epilogo, dove quella domenica sembra durare un’eternità, come non essere mai esistita e dove la morte, protagonista e chiavistello storiografico, non è mai pronunciata, temuta, derisa, maledetta, tenuta lontana: si ha già troppa paura di vivere, per averne anche di morire.

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