di Raffaele Ferro

PISTOIA. Sipario: scena in ombra - di spalle un gruppo di musicisti; banda di paese. Suonano Gioacchino Rossini di fronte al maestro. Il Carabiniere in divisa, impettito, sul podio, è l’unico a essere illuminato. Andrea Rossini (caso vuole l'omonimia) che interpreta il Maresciallo, nei camerini dopo lo spettacolo mi dice che sostanzialmente, stare sempre impettito, quasi immobile, in un ruolo con poche battute, è tutt'altro che semplice. È vero: Allegretto (perbene ma non troppo) non è uno spettacolo qualunque, la sceneggiatura di Ugo Chiti lo ha previsto, scritto e organizzato. Una storia semplice, banale, come mi dice il regista dopo lo spettacolo; una serie di scompartimenti, la divisione e la giustapposizione delle scene, delle gabbie. Si perché i personaggi lo sono, ingabbiati in quello che è un essere, un trovarsi (come nel ventennio fascista per molti fu) ingabbiati, se non proprio imbavagliati, in un personaggio. De resto, ribadisce il regista, è la stessa banalità del Male di cui Anna Arendt ne ha delineato i profili, quella dei nazisti, quella della fredda e cinica azione di chi ha deportato e sterminato milioni di innocenti, in cui si struttura la vicenda. In Allegretto si parla del nostro territorio, di un piccolo paese di provincia e di un fatto triste, crudo e scomodo. Qui, sul filo del discorso, fatto con gli attori e col regista, prima dell'inizio, si cerca di inquadrare la storia.

Gli attori del Gad sono un gruppo collaudato, affiatato, unito e per questo un giro quasi casuale dietro le quinte, ponendo poche domande: nome, personaggio, impressioni sulla storia e sulla recitazione. Ci dice Edoardo Desideri (il dottore) che il ruolo dell'uomo di scienza, il medico, soffre proprio dell'imbavagliamento, di fronte a chi decide e chi detta legge - sopra la religione, alle malelingue, e sopra anche alla vera e propria legge, quella della forza pubblica. Nel paese, a breve, il Cavaliere Benito Mussolini, attesissimo, verrà a fare la sua visita. Tutti in fervida attesa, un’attesa tesa, per usare un assonanza fastidiosa. Molto tesa. Chi tiene tesa questa corda umorale? Il Giorgini (Nicola Buti) camicia nera-capo di Partito, personaggio che pittoresco è dire poco, con la sua prosopopea toscana, niente si fa mancare fra parolacce e battute di dubbio gusto, prepotenza congenita del fascista, maschilista, anticlericale e anti-legge (qui sono io che decido, non certo il prete, il dottore, il podestà o il carabiniere). Alla domanda sul personaggio e sul calarsi in esso, Nicola ci confessa che c’è molto sforzo tecnico per chi è tutt'altro che prepotente, come lui stesso si definisce, a interpretare l’uomo del fascio, strafottente e bastardo, però confessa che ci si diverte molto. Strappa le risate al pubblico, infatti il sentirlo parlare in quel tono. Ma sembra che dopo, per il pubblico, ci sia altro in serbo oltre al ridicolo, al comico, al grottesco. Cosa è successo? Si diceva della festa per l'arrivo del Duce. Tutta la preparazione, la banda, gli scolari balilla e le scolare ginnaste e la sarta Viola (Deborah Guidi) che prepara gli abiti, e da brava pettegola come si dice in gergo, cuce addosso sentenze a chi in prima fila accoglierà Mussolini, spettegolando su tutto e tutti. In questo senso, Rossella Fedi ci racconta della sua facilità esperienziale e caratteriale a calarsi in Olimpia (la pettegola di paese in coppia con la sarta) e in breve ci dice che l’essenziale è fare proprio il personaggio, sviscerarlo e digerirlo prima di entrare in scena. Tentiamo di spiegare la storia. Tutto sembra perfetto e luminoso (come le fanfare di Rossini) in un paese che si fregia, nel 1939, dell'arrivo del Duce. Ma orrore e vergogna, un feto viene ritrovato, lacerato dai cani, in un campo. Un’offesa al buon senso comune, un’offesa all'umanità: un aborto, offesa a Dio e alla Patria. Una macchia squallida e disarmante che insozza il candore di un paese perbene. Il Podestà (Gennaro Criscuolo) viene a sapere del fatto e si trova spiazzato, lui, già angosciato dai suoi problemi, con la moglie Ottavia (Lucia Del Gatto) che non riesce ad avere figli e che, isterica, annichilisce il marito, lo minaccia di gettare luce sulla sua mollezza, la sua impotenza e la sudditanza totale verso chi, sopra lui, senza averne il diritto, detta legge ossia la camicia nera, il Giorgini, suo contrario. All’opposto Adina (Antonella Ferro) moglie del Giorgini, ne sta aspettando un altro di figli, l'ottavo. Affranta, depressa e sconvolta dall'obbligo di partorire ancora, per far felice il nero e truce marito e per far felice il Regime e la Patria, consolata solo da Matilde (Martina Criscuolo), una delle figlie. Lei sì che vorrebbe abortire, fino alla scena sul finale in cui raggiunge il parossismo percuotendosi l'addome, piangendo e quasi delirando nel suo destino di donna usata, e tradita più volte dal marito. Lui, inseminatore di regime, la tradisce giornalmente con la frivola serva Ginecriste (Irene Pieraccini), la maestra di scuola Sig.rina Salimbeni (Claudia Coppola Bottazzi). Tornando al feto.

Come nascondere e annientare un Tabù? Ecco il dramma, ecco la crudeltà bassa. Nascondere la verità nell’atto proprio di cercarne la colpevole madre che abortisce. Un controsenso? Ma è così. L'importante è lavare al meglio questa tremenda macchia prima che arrivi il Duce. Allora si cerca il bandolo di questa matassa, sale la tensione e si vuol creare una colpevole. Margherita una semplice ragazzina (Elissa Ciolli) ne fa le spese, già considerata la responsabile, tacciata di leggerezza in quanto figlia di Domenica (Marisa Schiano) una madre col passato chiacchierato, che nella scena più forte e cruda, confessa e racconta alla figlia della sua storia, di abusi sessuali, normali, quasi dovuti, da familiari e amici. Tema pesante, tema e tabù su cui ruota tutta questa crudeltà. Suo marito Sestilio (Elvio Norcia), poveruomo trascinato nel giudizio, nell'indagine, dato che già è stata definita la colpevole, sua figlia adolescente, piange e si ribella alla cattiveria propria del fascismo e delle malelingue, non temendo le conseguenze. Le voci corrono; la serva Ginecriste confida alla nipote del Proposto Milenina (Costanza Presi), il fatto del feto ritrovato, e il Proposto (Roberto Fontani) subito messo a conoscenza malgrado le decisioni di tenere il silenzio, prende anche egli parte al giudizio, come uomo di Chiesa, in questa situazione incresciosa. La conferma che la ragazzina è vergine, dopo un controllo del Dottore, già fa tremare di imbarazzo e di confusione tutta l'impalcatura. Chi è la colpevole? Un’attenta osservazione del feto, ordinata dal dottore al laboratorio di analisi, ha decretato la natura animale e non umana di questo tabù, di questo feto ritrovato e pare tutto risolto. Storia cruda, pulp buffo, un noir o un giallo di casa nostra e mentre tutto questo succede, in paese arriva, tetro e in sordina, un gerarca da Firenze l’Apolloni (Alessandro Soldi). Le pettegole se ne accorgono e il paese trema alla vista di un uomo così importante, con il segreto che c’è da coprire. Tetro e spossato, esprime violento disagio all’arrivo alla pensione in cui alloggerà. Una grossa valigia con sé, si scoprirà, contiene i pezzi della moglie che lui, in fuga da Firenze, ha ucciso. Il finale ci svela questo. Svela che l'essere infimo, il baco, il Tonchio (Andrea Gonfiantini), soprannome del custode dell'albergo, il reietto, emarginato di paese (che scopre la morta nella valigia) ha la sua rivincita sul primato del potere, il gerarca. L'assassino di mogli. È in questo confronto fra i due che si specchia il dualismo tremendo dell'uomo. Il sentirsi importante e infimo al tempo stesso. Lo sporco che sta nell'animo, l'impeto violento e avventato di chi non ha saputo gestire se stesso, le proprie azioni e i propri comodi eccessi triviali (come i bravi attori devono invece saper fare - mi dice Gonfiantini - gestire le emozioni, i residui del personaggio e la forte carica di immedesimazione). Questo sporco d’animo, l’animo del Gerarca, si confronta con la purezza di chi non ha mai avuto alcun potere, chi ha sempre servito e riverito ospiti d'albergo. In questo confronto sta la magia del Teatro, di questo teatro (in divenire, in sfumare in astrazione, in rivelazione psicanalitica proprio della banalità della bassezza umana, quella di ogni fascismo e di ogni idiozia di regime) per la regia di Enrico Melosi, il quale trasforma nel finale tutta la compagnia in figure vuote, zombie inespressivi costringendo quasi il pubblico, dopo le risate, a un attonito silenzio, turbato e consapevole del dramma. In Allegretto (perbene ma non troppo) sono messi in risalto punti chiave dell’umano vivere o sopravvivere: nella recitazione, nella scelta delle luci e della Scena; minimale, fissa, astratta, soffocante. Pochi gli elementi di finzione scenica, nessun orpello se non i costumi, d'altro canto impeccabili e credibili. Sopravvivere al fascismo dell’essere, ai fascismi dell’essere umani. Perché ogni personaggio è, come detto dal regista in camerino, rinchiuso nella sua gabbia (come un animale, come una fiera impazzita e impaurita). L’inquadratura è storica, quella del Ventennio. Ma Quale ventennio, verrebbe da dire? Quello infinito della sudditanza e dell'omologazione. Quello infinito della menzogna, del chiacchiericcio e della mascheratura, di chi vuol decidere e vuol gestire. Un’ ingabbiatura voluta dal regista, quella degli attori, che nonostante la parola, i dialoghi, l'interfacciarsi (manovra d'Arte che rende difficile da sempre il compito recitare per un pubblico) delinea camei, tipi mentali e comportamentali, modelli fissi di gente comune. Questo fa dello spettacolo un esempio nuovo, forse di un divenire del Gad; da compagnia di rappresentazione a gruppo di sperimentazione attoriale. Questa fine sceneggiatura di Chiti (basata su un fatto vero) ne dà l'opportunità, di uscire quanto basta dalla narrazione per entrare in media res con tagliente crudeltà, nella scottante quaestĭo. La crudeltà alta, quella che va oltre il teatro di rappresentazione, quella che è cura e antidoto, quella artaudiana del Teatro come mezzo e strumento catartico in epoche tremendamente immobili, ciniche e spietate. Nel manovrare, col Teatro, corde sensibili - e spesso bloccate e imbavagliate dal buon senso, dalla facciata, dallo stile - tramite il grottesco, lo shock, la scarica e la carica, lo scuotimento che si spera funzioni, e che di fatto smuova davvero l'animo del pubblico.

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