FIRENZE. Oscar De Summa non ci va mai leggero. Per fortuna. Anche stavolta, con L’ospiteuna questione privata -, prodotto da Pupi e Fresedde, Teatro di Rifredi e Uthopia, si è risparmiato poco. E anche stavolta, nonostante sul palco non ci sia lui, il funambolico pugliese, come è successo con La sorella di Gesùcristo e Stasera sono in vena, ma il conterraneo Ciro Masella (che firma anche la regia) e l’albanese Aleksandros Memetaj, la storia appartiene, senza dover fare ricorso a sforzi particolari, a quelle minori, ma solo per eco mediatico, di provincia. Una provincia immaginaria e facilmente immaginabile, dove nel baratro, alla fine, finiscono per rotolarci tanto i carnefici quanto le vittime. La scena del crimine, ambientato nella metà posteriore del palco del Teatro di Rifredi (ieri, venerdì 19 aprile, quarta e ultima replica), è il salotto di un appartamento nel quale un topo dimmerda, frocio, che ci scopa le mogli e le sorelle (anche quelle degli altri, ma le altre son tutte troye) è furtivamente e maldestramente entrato per fare razzia, non facendo però i conti con il proprietario della casa che rientra prima che il ladro porti a termine il suo progetto criminale.

La casa è messa a soqquadro, ma il paterfamilias riesce a immobilizzare e imbavagliare il delinquente e sommariamente a processarlo, togliendosi qualche sfizio, tra sadismo e cinismo, prima dell’arrivo della Polizia, che giunge sul posto non perché chiamata dalla vittima, ma dai vicini, impauriti dalle urla che provengono dall’appartamento. Sulle note di regia, uno degli accenti della rappresentazione è messo sul diritto inalienabile della difesa e la sua legittimità, cercando di capire fin dove l’esasperazione della vittima può concedersi il lusso di spingersi per infliggere in anteprima al suo rapinatore le pene che la Giustizia penale e processuale, probabilmente, non gli comminerà in maniera consona e adeguata. Ma l’interrogatorio, tra dotte citazioni musicali e cinematografiche di uno sbalorditivo, per un’altra prova di magnifico camaleontismo, commissario Ciro Masella e uno stupefacente e imprevedibile imputato, Aleksandros Memetaj, che alterna terrore a voglia di vendetta, atteggiamenti sindromatici a meschini patti criminali, corre, a parer nostro, lungo la linea dei diseredati, in una commovente lotta tra un ultimo e un penultimo, con il secondo salito a un rango meno infimo solo per l’arrivo, improvviso, di una generazione ancor meno qualificata dei reietti del giorno precedente. Felice lo stridore rappresentativo tra uno spumeggiante, impaurito, incarognito, represso, fallito, anelante, ma frustrato impiegato che può finalmente risorgere, nel giorno più buio della propria esistenza, impartendo la propria meschina e adrenalinica lezione al suo carnefice, scappato da una terra che lo ha battezzato e abituato alla miseria, alla guerra e al dispotismo paterno, facendogli perdere di vista la linea di demarcazione, netta e chiara, tra il bene e il male. Un’inconsapevole complicità a ribasso che si materializza, definitivamente, quando i due mattatori si allontanano dalla scena del crimine per posizionarsi sotto il modesto e fioco riflettore della rappresentazione e della vita stessa, dove le voci vengono amplificate da un insano riverbero fonico e le due belve umane patteggiano e si interrogano sulle loro rispettive performance, protagonisti e spettatori di un copione che si autoalimenta a ritmi quotidiani, grazie al totale imbarbarimento collettivo che agita in modo sinistro i carnefici ed esaspera, chirurgicamente, le vittime, in questo gioco al massacro senza confini, dal quale dobbiamo prendere quanto prima le distanze e provare ad immunizzarci, perché il rischio, grosso, che tutti noi corriamo è quello di venir risucchiati, uno di questi giorni, in una delle due tragiche spirali, nelle quali non avremmo mai pensato di cadere e dalle quali non sapremmo come uscirne.

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