
FIRENZE. È vero: con Michele Santeramo, l’integrità cronistica che ci distingue, la nostra inflessibilità ad personam, il nostro manicheismo che non ammette eccezioni, per magia, si dissolvono e si trasformano in un unico straordinario blocco emotivo. Quando sul palco c’è Michele Santeramo noi diventiamo patetici ultrà e finiamo per non scorgere mai nulla che non sia magnifico, proprio come i supporters calcistici che si stipano nelle curve fanno con i loro beniamini. Ma la colpa è sua, beninteso, perché ogni volta noi vorremmo pure non lasciarci suggestionare dalle sue affascinanti affabulazioni e rimanere neutrali, come torri che non si muovono a sì spirar di vento, ma non ce la facciamo. Michele Santeramo va, puntualmente e sistematicamente, oltre ogni ragionevole e pertinente (pre)giudizio e finisce per abbindolarci, con la nostra totale e inerme complicità. Storia d’amore e di calcio, sul palco rovesciato del Teatro di Rifredi, che con questa rappresentazione (si replica fino a sabato 27 aprile) chiude la stagione di prosa, è un’altra storia minima, ignobile e dimenticata, che somiglia quelle minori delle quali il mattatore si ciba da sempre.
Stavolta, però, per questa riproposizione prodotta dalla Fondazione Teatro della Toscana, ci va giù duro con i tassi emozionali, perché a corredo di quell’espressione minimalista, novellistica, coheniana e qual timbro surreale che sta tra l’aperitivo e la cena, che suggellano parole che tracimano significati, umori, suoni, ricordi, paure, storia e politica, Michele Santeramo chiede e riceve meraviglioso soccorso dalla musica di Sergio Altamura e dalle visualizzazioni, sfocate, perché antiche o comunque di un Sud dimenticato, autonomo nel proprio nichilismo, di Vito Palmieri e il risultato è - stavolta la parola è quella di un cronista ultra privilegiato (in prima fila) -, straordinario. Bisogna decidere, dopo una mega rissa scoppiata nella piazza principale del Paese, quale gang locale prenderà il controllo sugli illeciti: ci sono varie formazioni a contendersi il trono; gli indigeni meridionali e poi un’altra serie di etnie; albanesi, marocchini, polacchi, brasiliani, cinesi e indiani, che non sanno giocare a pallone, questi ultimi, ma una delle loro ragazze ha degli occhi nei quali ci si annega. E per questo, in un microcosmo qualsiasi del Sud del mondo, si organizzerà un campionato del mondo di calcio clandestino per stabilire quale formazione prenderà, per un anno, il controllo delle clandestinità. La sottilissima linea rossa che congiunge il fascino del calcio a quello dell’amore per poi perdersi e svanire, con tutti i rimpianti al seguito, nel mare delle pessime abitudini diventate, nel tempo, storia incontrovertibile, è il meraviglioso pretesto che Michele Santeramo prende in prestito per imbalsamare il pubblico e rovesciargli addosso un’altra divertente, tragica e violentissima storia. Che si muove lungo i binari sui quali i diseredati riescono ancora a sentirsi vivi, il calcio, contemplando anche e purtroppo, soprattutto, quello che spesso lo riesce a far essere così importante: i soldi, il potere, la supremazia, che si realizzano con le minacce, i soprusi e le violenze. Non scendiamo in dettagli per il rispetto che portiamo, e volentieri, agli altri fortunati che riempiranno le tribunette del di dietro del palco da stasera fino a sabato prossimo, ma ci sbilanciamo sulla profusione di tasso suggestivo e alcolico che il reading produce: da una semplice punizione dal limite dell’area, che, calciata a foglia morta, come faceva Mario Corso, nell’Inter di Heriberto Herrera, non può che gonfiare la rete, seppur il portiere avversario, qualcosa in più per neutralizzarla, avrebbe anche potuto fare, a due patti non rispettati: quello della combine e quello dell’amore per sempre. Però, che punizione!
