PISTOIA. Ricorda, ma non è certo un caso, tutti i cantastorie semiseri, tragicomici, della lunga e forbita storia del cantautorato impegnato, ma non troppo, che l’hanno preceduto. Ascoltarlo e vederlo all’opera, anche se si conoscono, a mente, i suoi pezzi, i suoi lazzi e le sue smorfie, è sempre un piacere, perché Francesco Bottai (foto Lorenzo Gori, ma non quello de Il Tirreno, eh), la metà sopravvissuta agli eventi dei Gatti Mézzi, gode si simpatia connaturata, biochimica, inevitabile. Anche quando stornella, tra il blues dei primordi e il rock intimista dei miglior crooner, pezzi tristi, la vena di leggera e ilare inesorabilità prende puntualmente il sopravvento e alla fine dello spettacolo, quando ci si congeda dalla sala, si ha sempre l’impressione che si sia fatto bene ad andare a sentirlo un’altra volta. Se poi a invitarlo sono gli Omini nella loro Segheria, il senso di soddisfazione è doppio, perché quella sala di produzione autogestita, che riproduce artigianalmente e in miniatura i foyer e le sale teatrali di contesti più accreditati e sovvenzionati, sono di quanto più coraggioso e incoraggiante ci sia in circolazione.

Nell’occasione, ad accompagnare il cantastorie di Marina di Pisa, che non appoggia sulle cosce, né destra, né sinistra, la sua chitarra, ma la tiene sospesa verticalmente, come se ci fosse qualcuno a sorreggergliela, in questo viaggio tra la via Aurelia e Sant’Agostino (è lì che ha sede la Segheria), c’era anche Daniele Aiello alle tastiere e insieme hanno fatto da Ciceroni per instradare il pubblico tra i meandri delle confessioni esistenziali del rocker pisano, un viaggio a metà strada tra le scoperte adolescenziali, i sogni partoriti sul muretto, i ricordi indelebili del padre, di amici e pazzi genuini e i cavalli di battaglia di ogni disattendibile predicatore: l’amore, il sesso, la felicità, che spesso, quest'ultima, è il connubio dei primi due. Tutte cose sussurrate, dette a denti stretti, accompagnandole, sistematicamente, con il cinguettio di un fischio rodato, storie alle quali sembra mancare un verso, l’ultimo; non è sbadataggine, né approssimazione, tanto meno superficialità professionale, ma la tecnica Bottai: quella che impone allo spettatore attento di proporre la chiusa e di metterla a suo piacimento. Ieri sera, alla Segheria de Gli Omini, che hanno curato la scenografia e l’allestimento dello spettacolo, dopo aver omaggiato Gaber, Tenco per citazioni struggenti e l’amico Bobo Rondelli, a cui ha dedicato Bobo frigorifero (a causa del suo immarciscibile lunatismo), ma senza dimenticare, quanto basta, di meleggiare un po' il navigato atteggiamento di molti colleghi, sospesi tra una falsa disappartenenza e una distrazione chimica, cose che li rendono terribilmente artisti, Francesco Bottai ha, come da copione, anticipato le sue storie, strettamente circoscritte all’indispensabile, da improbabili spiegazioni/prefazioni, che quasi sempre, ma anche questo fa parte dello show, fuorviano chiunque ne voglia trarre beneficio. Non a caso lo spettacolo si chiama Passo dopo, manifesto universale per chi fa perennemente e puntualmente tardi, per chi preferisce rimanere ancora un po’ a letto a dormire e per chi, ma davvero, eh, non sapeva che lo stessero aspettando e saputolo in ritardo, non può che garantire la sue presenza, ma a posteriori.

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