
FIRENZE. Lo Svalbard Global Seeld Vault non s’ha da salvare; né ora, né mai. Non ha senso, perché assicurare al pianeta oltre diecimila semi congelati in grado di garantire la prosecuzione della specie non è la più grande dimostrazione ecologica, ma il più aberrante crimine: disperdiamoci nel vento, è meglio. Non è questo il messaggio di Sémi, di Stivalaccio Teatro, al Mila Pieralli di Scandicci (oggi, 19 maggio, alle 16,45, ultima replica), ma è quello che avremmo voluto che fosse. Pazienza, qualcuno ci penserà, prima o poi e prima della nostra meravigliosa e aberrante capacità autodistruttiva, a estinguerci. Sémi invece, senza infamia e senza gloria, testo e regia di Marco Zoppello, affidata a Sara Allevi, Giulio Canestrelli, Anna De Franceschi, Michele Mori, Marco Zoppello e Matteo Pozzobon, è un testo mascherato (di cuscuniana memoria) ambientato ai limiti dell’aurora boreale, dove tre soldati italiani in forza alla Nato (il sergente Mario Zoppei e i suoi due soldati scelti, Giorgio Morello e Fausto Rossi), alla viglia di un natale prossimo futuro, sono a guardia della banca mondiale del seme.
Non rappresentano, i tre caschi blu, il meglio (che poi è il peggio) che ci si possa immaginare, ma è quello che passa il convento militare: un sergente che non riesce a gestire la paternità con un figlio piccolo che esige da Babbo Natale l’ultimo telefonino a prezzi stellari (si parlano con un satellitare, dalla base militare nordica); un soldato che crede ciecamente nel rigore della divisa e un altro invece, napoletano, naturalmente, che si trova al freddo e al gelo della Scandinavia per sottrarsi alla disoccupazione, ma che vive in una bolla artificiale tutta sua, musicata dalle canzoni di Iva Zanicchi e tenuta in vita dalle vicende della Nazionale di calcio. Ma quello che si legge nelle note di regia, Sêmi è un ring, un luogo di scontro per fuggitivi dei più dispersi gironi infernali, i personaggi, dai tratti caricati e deformi, a metà tra il fumetto e la satira espressionista del ’900, sono dei piccoli mostri che sgomitano per trovare il loro spazio nella società, così come le antiche maschere della Commedia dell’Arte, qui trasportate e rimasticate in un futuro prossimo. Sono anche sémi: nel dialetto veneto la parola descrive anche quei soggetti a cui (forse) manca una parte di senno. O forse, per qualcuno, sono tutt’altro che privi di senno, anzi, sono sementi di un’umanità che deve ancora germogliare, noi, non siamo riusciti a coglierlo. I tratti tragicomici dei singoli personaggi sono utilizzati in modo deforme per dare maggior corpo, peso e misura ad un ideale teatrale che seppur affidandosi alla surrealtà non trova il suo giusto rivolo, la sua giustificazione. Le due terroriste (Sara Allevi e Anna De Franceschi), un po’ romane, un po’ ciociare, che non incutono mai timore, anche se armate, si muovono goffamente: non sono state addestrate in nessun campo paramilitare clandestino e il risultato della loro spedizione ne è la testimonianza più palpabile. La diretta televisiva, il Generale che da Roma minaccia ritorsioni previdenziali ai danni dello sfortunatissimo e fantozziano sergente, le pressioni gerarchiche al miserabile soldatino meridionale per dare, alla tragedia, l’epilogo che meglio si concilia con il perdurare dello stato di controllo non vengono sfruttate come sarebbe stato lecito immaginare e come uno studio più robusto delle tecniche di recitazione avrebbe forse potuto garantire.
