PISTOIA. Dobbiamo attraversare spazi e spazi senza fermare in alcun d’essi il piede; lo spirto universal non vuol legarci, ma su, di grado in grado, sollevarci. Iniziamo da Hermann Hesse e da un passo di uno dei suoi capolavori, Gradini, per raccontarvi non tanto di Shakespearology, l’ennesima idea (geniale) di Sotterraneo, la compagnia ideatrice e realizzatrice dello spettacolo (prima data di Teatro Sotterraneo, ieri sera, 11 giugno, al Funaro), ma per concentrarci su Woody Neri (foto di Francesca Infante), il mattatore solitario, la reincarnazione del Vate anglosassone, che non disdegna il rock, strimpellando con dignità la chitarra, cantando egregiamente e tirandosela un po’, visto e considerato che attorno alle sue opere, da cinque secoli a questa parte – e la cosa è destinata a eternizzarsi -, ognuno che si accinga a fare spettacolo, prima o dopo, con lui, ci sbatte necessariamente il viso e il futuro. L’avevamo visto all’opera in più di un circostanza, Woody Neri, senza riuscire mai a convincerci; ieri sera abbiamo finalmente potuto cambiare idea. E siamo contenti: per lui, ma anche per noi.

Finalmente libero dagli schemi di un teatro che l’ha costruito offrendogli tutti gli strumenti, con la scrittura e i diktat di Sotterraneo è riuscito a dare un senso e una direzione, personalissimi, al proprio percorso. Senza oltraggiare mai gli studi preziosi collezionati, ma senza che questi ne condizionassero la visione, nuova e sperimentale, della nuova regia che l’ha voluto addomesticare a questa rappresentazione, un colloquio semiserio con uno dei più gradi drammaturghi di ogni tempo, Shakespeare, appunto, reincarnato per la bisogna, una conversazione surreale tra alcuni impertinenti curiosi, con pochissimi peli sulla lingua e la resurrezione dell’anima di William, costretto a dare spiegazioni sulla sua fuga da Stratford, lasciando moglie e tre figli, alla volta di Londra, per coronare il suo sogno. Un’ora scarsa, cinquantadue minuti per l’esattezza (un minuto all’anno della sua vita), nei quali le tre voci fuori campo degli ultimi vincitori del premio Ubu 2018 interagiscono con la resurrezione del fuoriclasse in carne e ossa, sbeffeggiandolo, chiedendogli lumi sui segreti e le sorti del teatro, ma anche del cinema, della letteratura, della musica, giustificando maldestramente e con un pizzico di imbarazzo la fortuna capitata ai suoi eredi cinque secoli dopo, dove il teatro, molte volte, riesce a sopravvivere a prescindere dai gradimenti spesso latitanti perché nel frattempo, il teatro, è diventato merce educativa e ormai lo si riesce a spacciare non più come spettacolo e divertimento, ma come materia dottrinale. William Woody Shakespeare non si sottrae mai al bombardamento del fuoco incrociato di domande; alcune volte preferisce soprassedere, soprattutto nel non dare spiegazioni riguardo a quei sette anni perduti (1585 – 1592), ad esempio; altre, imbracciando la chitarra e deliziando il pubblico intonando alcuni motivi di Elvis Presley, Bob Dylan e Domenico Modugno, ma soprattutto carrellando sulla scorta di tutto quello imparato in questi anni calcando le scene al fianco di alcuni mostri sacri del teatro italiano. E se la vis di Sotterraneo, fortunatamente, non ci stupisce più, ma solo perché riconosciamo alla compagnia una dose di creativa saggezza mista a sconsiderata follia, siamo restati piacevolmente abbagliati dal camaleontismo di Woody Neri, finalmente alle prese con un testo che ne ha saputo sfruttare, mettendole alla berlina, le conoscenze classiche, per questa contro-intervista, la prima, forse, nella storia del Teatro, in cui al Bardo gli si riconoscono certo i meriti e le virtù, ma gli si rinfacciano anche i vizi.

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