FIRENZE. È un crimine efferato, il parricidio. Perché la vittima, quasi sempre, non si rende minimamente conto di quel che sta per succederle. Però lo sa e sa anche di meritarla, quella fine da bastardo. È successo a Tebe, con il primo caso, seppur involontario, della storia tramandataci, così famoso da essere diventato un complesso, anche se non si sa se si sia consumato veramente. Dopo, la cronaca ci segnala San Martino e poi altri parricidi, violenti, ma meno carismatici. Ricordiamo, nitidamente, quello di Marco Caruso, con il quale dividevamo i sogni adolescenziali di bomber di razza all’oratorio di Don Bosco; aveva appena 14 anni, quel 5 dicembre 1977, quando decise che quel mostro del padre sarebbe dovuto morire. Quattordici anni dopo fu la volta di Pietro Maso e dei suoi complici/amici, ma qui, di mostruoso, c’era solo una società malata e le sue vittime/carnefici, alle quali sarebbe stato giusto non consentire il lusso di poter chiedere perdono. In Tebas Land, invece, al Teatro di Rifredi, a Firenze, prodotto da Pupi e Fresedde, fino a domenica 27 ottobre, il fenomeno parricidio è trattato diversamente. Perché Sergio Blanco, l’autore franco-uruguagio, tradotto e portato in scena dal convalescente Angelo Savelli e affidato alla magistrale interpretazione di Ciro Masella e Samuele Picchi, con tutto il rispetto per la secolare tradizione giurisdizionale e morale, ha voluto trattare l’argomento da un’angolazione innovativa, che lui stesso ha definito autofinzione.

La tragedia è la medesima: un figlio uccide il padre, con ventuno forchettate di inaudita violenza inflittegli sul corpo durante l’ennesima controversia familiare: la location del delitto è la cucina, per la precisione, con il corpo esanime del padre appoggiato al frigorifero. Ma dietro questa personalissima mattanza non ci sono la droga, l’alcool, la miseria, i soldi, la follia o qualcosa di inenarrabile, che verrà svelato alla comunità solo a dibattimento processuale aperto. Martino, questo il nome del detenuto, è omosessuale e ha scelto la strada più breve e più buia dell’indipendenza: la prostituzione. Il padre-padrone non lo accetta e dopo avergli rinfacciato per una vita la sua totale disaffezione, accusandolo addirittura di essere stato causa, con la sua nascita, della massa tumorale alla vagina costata la vita alla madre, lo definisce una lurida puttana. È la goccia che fa traboccare il vaso: la vendetta/delitto è servita. Viene avvicinato, in carcere, con tanto di permessi, fogli e bolli distribuiti dal Ministero della Giustizia, e fatto confessare dal regista francese che ha l’ambizione di portarlo addirittura in scena. La macchina infernale della burocrazia non glielo consentirà e al posto del vero parricida il regista, autore e professore universitario dovrà cercare e scegliersi un attore in grado di esternarne l’ansia, senza doverne prendere le sembianze. C’è Samuele, che lo convince, al provino e con lui inizierà a lavorare su questa messinscena che solo durante il cammino della preparazione svelerà il suo nome: Tebas Land. La rappresentazione trasuda richiami e riferimenti storici: da Pirandello a Dostoevskij, dalla Bibbia alla tragedia greca, senza però allontanarsi mai dal nucleo di questa autofinzione. Il regista-cronista (Ciro Masella) entra ed esce dalla gabbia/galera/campetto di basket alternando i suoi dialoghi con il detenuto-attore (Samuele Picchi) alla presenza, muta, ma invasiva, della guardia carceraria che ha il dovere di tenere la situazione sistematicamente sotto controllo. Un ritmo incalzante, claustrofobico, senza soluzione di continuità, suggellato dal mirabile camaleontismo dei due protagonisti, che alternano le loro passioni e pulsioni, dentro e fuori il recinto, che con il trascorrere della rappresentazione assume sempre più la fisionomia di un recinto di uno zoo, dove le fiere pensano solo a uscire e gli spettatori che si augurano di non entrarci mai. Sullo sfondo, l’amore, anzi, l’Amore, conquistao a fatica,a  colpi di fiducia, di rivelazioni mute: dato, non dato, ricevuto, respinto, materno, paterno, fraterno, edipico, omosessuale, che sembra essere anche in questa circostanza l’unico antidoto a qualsiasi sorta di maleficio.

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