
FIRENZE. Chissà se la sorte ci sarà benevola e ci consentirà di sopravvivere, in salute, ancora due o tre lustri. Sì, gliene saremmo grati, per ovvi e scontati motivi, ma anche per poter assistere ad un altro capolavoro tipo Mary said what she said, con una monumentale, quasi disumana Isabelle Huppert. Ancora dieci, quindici anni circa; perché prima, uno spettacolo così, sarà difficile che qualcuno riesca a metterlo in piedi. Quando siamo usciti dal teatro La Pergola, a Firenze, infatti, ieri sera (si replica oggi, domenica 13 ottobre, alle 15,45), anche per le scarsamente avverse condizioni climatiche, abbiamo preferito passeggiare per la città, anziché tornare immediatamente alla macchina e fare ritorno a casa, nonostante alcune orde di adolescenti/barbari intenti a starnazzare ubriachi e molesti nelle vie e nelle piazze del centro ce ne suggerissero il provvido allontanamento. Ma abbiamo sentito la necessità di confrontarci spiritualmente con quello che abbiamo avuto la fortuna di vedere poco prima, provando a riassaporarne la fragranza. Della vita e della storia, tipicamente leggendarie come tutto il noioso Medio Evo, di Maria Stuarda non ce ne fregava, non ce ne frega e mai ce ne fregherà assolutamente nulla.
Anzi: l’epica ci infastidisce, in particolare quella scandita da regni e reami, corone e discendenze, stabiliti per censo e alimentati dalle più grandi delle falsità e delle ipocrisie, le religioni, di qualsiasi credo. Ma quando alle spalle di un’operazione teatrale ci sono colossi come il Teatro della città di Parigi, coprodotto da Vienna, Amburgo, Amsterdam e La Pergola di Firenze e a chiedere alla pluripremiata Isabelle Huppert di dividere e condividere, per la terza volta (dopo Orlando e Quartett), un progetto, un’idea, una realizzazione semplicemente faraoniche, è un tipo che risponde, anagraficamente, a Robert Wilson, che firma regia, scene e luci, come avremmo potuto restare a casa? Difficile parlarne: una donna sola nel bel mezzo di una scena che staglia l’accecante lucentezza di un fondo palco illuminato in più fasi a tinte unite che sono la mobilia virtuale di più castelli, dalla Francia alla Scozia, passando per l’Inghilterra dove questa regina esiliante, anch’essa, per alcuni versi emigrante, snocciola le sue vicissitudini a supersonica velocità, senza mai perdere il controllo del proprio corpo mummificato all’interno di un abito dell’epoca, dal quale spunta soltanto lo sterno che collega i seni al collo. Per capire, occorre osservare le didascalie che si succedono vertiginosamente sulla parte superiore del palcoscenico diviso preventivamente a metà, affinché il popolo di destra e sinistra della Pergola, che non lascia un posto libero, che segue con religioso (in questa accezione, l’aggettivo è positivo e gradito) silenzio l’intera rappresentazione riuscendo anche a soffocare, nonostante l’incombente influenza stagionale, quasi ogni colpo di tosse, possa capire e sapere di cosa si tratti. Certo, in sala, ce ne sarà più d’uno che con il francese ha grande dimestichezza e familiarità, ma dopo aver capito che sovente, la traduzione risente di un genericismo linguistico, noi, che apparteniamo a quella schiera di filofrancesi, abbiamo preferito soprassedere a una pedissequa comprensione letteraria specifica e ci siamo lasciati guidare dalla vista, dall’olfatto e dagli altri tre sensi, senza nascondere un’inaspettata e inspiegabile eccitazione. Facemmo così del resto anche con Emma Dante, il giorno nel quale assistemmo a Le sorelle Macaluso e il risultato, la commozione sfociata in lacrime, è stata la stessa. Come vedere saltabeccare Bobby McFerrin, assistere a un revival dei Manhattan Transfer, o trovarsi, sdraiati sul divano a notte fonda, su un canale del digitale terrestre che ci offre, in bianco e nero, il Quartetto Cetra. Perché dopo essersi presentata, Maria Stuarda inizia ad arrovellarsi attorno alle sue inquietudini, all’invidiosa cattiveria che costella la sua esistenza e allora inizia a danzare, come una convalescente dimessa dal reparto di ortopedia che aveva il sentore di restare, per il resto dei propri giorni, offesa. Per questo ripete, in modo psicotico, passi e traiettorie, disegnando sul palcoscenico un otto appoggiato a terra, nel segno dell’infinito e del destino della sua carriera, sincronizzando nevroticamente specifiche e identiche gestualità, accompagnate dalla modulazione del diaframma che la scambiano per una bambina dimenticata in auto sotto il solleone dai propri genitori e che, prima di morire, prova a fare gestacci e linguacce, nell’augurio che fuori, tra i passanti, qualcuno si accorga della sua lenta, atroce agonia. Esce sei volte a raccogliere applausi, Isabelle Huppert, due con il suo pigmalione Robert Wilson, con quella faccia imperscrutabile, ancora avvolta dal mistero regale cinquecentesco, regalando al pubblico che non sa come tributarle la cascata di emozioni ricevute, un inchino, ripetuto, anch’esso, nella stessa identica maniera, più volte.
