
PRATO. Anche Paolo Coletta, regista e drammaturgo, musicale, di Madre Courage e i suoi figli, avrebbe dovuto avere il coraggio di Anna Fierling (Maria Paiato) per non riproporre, tanto fedelmente, gli scritti corsari di Bertolt Brecht, che già tanto male fecero ai tempi della prima stesura di una delle sue tante lucide e apocalittiche previsioni esistenziali e provare a essere altrettanto irriverente, cinico. Lo spettacolo, che inaugura la ricchissima stagione del Metastasio di Prato (si replica oggi alle 19,30 e domani, domenica 27 ottobre, alle 16,30) risponde, con mostruosa fedeltà, a un sicuro battesimo: sul palco, accanto a una femmina di rara fisicità e presenza, uno suolo di dignitosissimi comprimari (Mauro Marino, Giovanni Ludeno, Andrea Paolotti, Roberto Pappalardo, Anna Rita Vitolo, Tito Vittori, Mario Autore, Ludovica D'Auria, Francesco Del Gaudio), perfettamente rodati a dare ulteriore sfoggio a una delle mamme più ciniche e diaboliche della storia della letteratura, affidata alla pluripremiata attrice rovigina, da oltre trent’anni applauditissima signora dello spettacolo. La rappresentazione, però, altro non è che un’ennesima, seppur dovuta, gradita e dunque indispensabile, esaltazione della lucida visionarietà dell’autore, del quale abbiamo fortunatamente già studiato i teoremi, quelli che l’hanno collocato, nella storia dei maghi, al fianco di avveniristici fattucchieri del peso e dell’eternità di Dante, Shakespeare, Pasolini e una vetrina dell’arte recitativa di Maria Paiato, come sempre e come al solito, monumentale, capace camaleonticamente di indossare gli abiti di qualsiasi matrigna.
Il palco, a specchio deformato, che ripropone i personaggi che agitano la scena in un futuro indefinito e in un passato incontestualizzabile, ha un grande foro circolare nel mezzo, un inquietante buco nero dove passano la luce della speranza e le tenebre della paura. La vivandiera Anna Fierling è a caccia di guerre, conflitti, morti da seppellire e compiangere, soldati da seguire e ai quali vendere vettovaglie e speranze, con il suo decrepito carro e i suoi tre figli, che non vuole in alcun modo svendere alle guerre - che le danno sostentamento e che nel tempo le hanno regalato una discreta notorietà, tanto che a lei non occorre mostrare i documenti per certificare l’identità -, ma sull’altare delle quali sacrificherà le loro vite, che sono mera mercanzia proletaria. È il cinismo della povertà, il sadismo della disperazione, così crassa che anche gli affetti apparentemente più nobili devono sottomettersi alle regole del commercio, dell’industria della sopravvivenza. La voce in sottofondo, un dio laico, femmina, dunque blasfemo, che scandisce il tempo, è la presentatrice della guerra dei trent’anni, nella quale si fronteggiano cattolici e protestanti, gli stessi che, con altre divise e nuove false ideologie, muoveranno i conflitti che verranno dopo, fino a quelli ai quali assistiamo oggi, dove con il viso rivolto sulla battigia restano, esanimi, quei bimbi le cui madri avrebbero voluto strappare alla barbarie, ma che per consentire ai loro carri di continuare a vendere mercanzie han dovuto a loro sacrificare. A proposito di quella fotografia, che ha fatto il giro del mondo, condannandoci tutti, vincitori e vinti, neutralisti e interventisti: Paolo Coletta, ma anche la debordante protagonista, un po' di courage, lavorando su Brecht, avrebbero anche potuto averne. Dopo lo scrosciante tributo di applausi, gli spettatori del Metastasio, incolonnati verso il guardaroba, hanno potuto gustare, nel foyer della struttura, un calice (di plastica, tanto per restare in tema di guerre che perderemo) di prosecco offerto della direzione teatrale, alla quale facciamo i complimenti per aver brillantemente risolto, con targhette metalliche affisse a terra, l’annoso problema della numerazione delle poltroncine della sala.
