
PRATO. È l’opera, l’Amleto di William Shakespeare, per antonomasia, con la quale, il circo teatrale di tutto il Mondo, si è misurato più volte. Ognuno, da secoli a questa parte, ha voluto dare al capolavoro esistenziale una propria lettura. Quella di Michele Sinisi, supportato nell’intento del riadattamento da un altro mostro sacro della parola, Michele Santeramo, in scena al Teatro Magnolfi di Prato con un trittico shakespeariano che si consumerà tra domani, alle 19,30 (Riccardo III/Now) e domenica, 3 novembre, alle 16,30 (Edipo. Il corpo tragico), e che fa parte del progetto, giunto alla terza edizione, di Piacevoli conversazioni, è un piccolo, meraviglioso esercizio linguistico, fisico, danzante, antistorico, sarcastico, irrisorio, allegorico, funebre. La scena amletica, abitualmente sconfinata e popolata da uomini, donne e suppellettili, in questa circostanza si riduce a uno spazio angusto, claustrofobico, minimale e decisamente popolare, dove il solo Amleto, tra Pierrot e Joker, ma anche un po’ Michael Jackson e anche un po' prestigiatore di tardo elisabettiano abbigliato, con il viso incipriato e le labbra cosparse di rossetto, condannato alla congiura della solitudine senza tempo, cerca disperatamente i suoi comprimari,
dei quali se ne ha testimonianza grazie unicamente ai loro nomi scritti con il pennarello sullo schienale esterno di piccole sedie di legno, abituali arredamenti di giardini rom, campeggi e feste dell’Unità e all’inconsolabile desiderio del protagonista di volersi ancora interfacciare con i suoi cari: la madre Gertrude, Polonio, la funerea predestinata Ofelia, Re Claudio, presenze, seppur virtuali, ingombranti di questo brevissimo scioglingua e scioglidiaframma. Perché Michele Sinisi, re clown, non smette un solo istante di ascoltarli e rispondere loro, perché è con loro che vorrebbe parlare, interloquire, discutere, ma dopo averli interrogati, invitati al confronto, esortati, aggrediti verbalmente, non gli resta che arrendersi alla fatale e tragica constatazione e compierne la sepoltura, appoggiando a terra, su un fianco, le sedie che rappresentano ognuno di loro e con le quali, fino a un attimo prima, ha nervosamente dialogato, sbattendole istericamente tra loro, ripiegandole e spiegandole, spostandole nell’angolo della stanza/bunker/carcere dove più desiderassero stare. Quarantacinque minuti di teatro allo stato puro, cristallino, dove la parola, nel senso più aulico del termine, finisce per essere inghiottita dalle sue sembianze, dai propri suoni, dai suoi influssi dialettali, scappando verso i camerini con l’evaporazione salivale ingigantita dal fascio di luce dei riflettori, colonnosonorizzata da una flebile musica che viene da una piccola radio/lettore cd appoggiata sull’unica sedia che non reca, in calce, il nome di nessuno e dalla quale fuoriesce, anch’essa dimenticata dallo scorrere altrove del tempo, un’aria di Gaetano Donizetti, sulle cui note il rapper Sinisi danza un’anomala iniziazione ritmica, che troverà il giusto e meritato riposo solo alla fine, quando lo sconcerto e l’impossibilità di essere si acquieteranno in un sonno tombale, ma che si materializzerà verticalmente, con la testa appoggiata sul cuscino rosso che aspetta, dall’inizio della rappresentazione, il suo inquietante utilizzo.
