
FIRENZE. È la sua ultima opera, l’unica incompiuta. Un segno, un presagio, forse, che I giganti della montagna sia stata consegnata ai posteri senza un finale; perché a quello, forse, Luigi Pirandello, avrebbe voluto che ci pensassimo noi. Non è andata così e se piove di quel che tuona c’è poco da essere ottimisti. Anche il vecchio Gabriele Lavia, impeccabile e monumentale direttore d’orchestra, oltre a uno scenografo di rara maestria come Alessandro Camera e visti i budget di cui può disporre e attorno ai quali può impreziosire le sue visioni, potrebbe e dovrebbe chiamare a sé uno stuolo di comprimari eccellenti e coraggiosi come lui e perché no, da impareggiabile musicista qual è, farsi dirigere. Il resto, è tutto noto: dalle visioni e la magie del disilluso Cotrone, alla smania di Ilse (Federica Di Martino), la scena tetra e spettrale della fatiscenza di questo teatro abbandonato e ormai a pezzi fa da contraltare alla luminosità e all’energia della compagnia degli Scalognati, irriverenti clown che temono, come le scimmie di Stanley Kubrick, l’approssimarsi dell’Odissea, di questi giganti che scendono dalla montagna e che passano, come un raid di supersonici Mig, sulla testa di questi poveri e spiantati sopravvissuti, ignari che fuori, il mondo, si sia da tempo orientato altrove e che la poesia che li nutre senza cibi e bevande basti solo a loro e a nessun altro.
Uno spettacolo monumentale (prodotto dal Teatro della Toscana con la coproduzione del Teatro Stabile di Torino e del Teatro Biondo di Palermo, in scena alla Pergola di Firenze; oggi, domenica 3 novembre, ultima replica pomeridiana alle 15,45), dove Gabriele Lavia, alla soglia degli 80, estrae ancora, con mostruosa disinvoltura, la sua classe, un concentrato ronconiano, anzi laviano, di parole e gesti, pause e farsetti, allegorie e proclami, nei panni di un narratore, mago, profeta su un palco circoscritto da un semiciclo spettrale davanti al quale si agita uno stuolo di comprimari che quasi mai sortiscono gli effetti mirabolanti del loro capocomico, tra un desiderio, posticcio, di primeggiare e la paura, impiastricciata, di non essere all’altezza. C’è solo lui, c’è solo il fuoriclasse, accolto in un salotto impreziosito da mobili d’epoca, poltrone vintage e lampadari lussureggianti che, badate bene, basta e avanza a giustificare il prezzo del biglietto e accompagnare lo spettatore, al ritorno sulla via di casa, con la soddisfazione di essere stato imbonito da un meraviglioso burattinaio che si è addirittura permesso il lusso di indurlo a riflettere su quanto e cosa potrà davvero la sua poesia al cospetto di un mondo che non si vede, ma che si teme possa piombare, da un momento all’altro, sulle nostre vite e dilaniarle, quel mondo che può fare a meno del teatro, della parola, della bellezza e continuare a sopravvivere come se non gli mancasse nulla, anzi, stando addirittura meglio. Non a caso la rappresentazione termina con tutti i protagonisti che osservano atterriti il cielo al passaggio delle cavallette, degli aerei supersonici, dei giganti della montagna e dal coro sale una voce che proclama i propri timori: ho paura, io ho paura. Ce l’abbiamo anche noi, paura, paura di esserci sbagliati, paura che non sia quello in cui crediamo che ci possa salvare, chissà quando e chissà come, dalla distruzione; paura che la parola della bellezza sia confinata a pochi cantori e che una volta morti, i posteri non sentano la necessità di continuare a diffonderla; paura che qualcuno, un giorno di questi, ci imponga di insossare un copricapo, così come temiamo che la montagna, inesorabilmente destinata a sbriciolarsi su se stessa, termini la propria deriva sui resti delle macerie del teatro che ancora ospita indefesse e temerarie compagnie. Temiamo inoltre, spezzando una lancia in favore di un pallido e temerario ottimismo e accreditandoci, fiduciosi, al prossimo spettacolo, che succeda proprio come sentenziò Woody Allen in Manhattan: Dio è morto, Marx è morto e io mi sento poco bene.
