
FIRENZE. Il foyer del Teatro Cantiere Florida è pieno. Fuori, diluvia. Il quarto d’ora accademico viene abbondantemente surclassato; l’inclemenza del tempo allenta il rigore degli orari e poi, all’ingresso, ci sono due dei tre protagonisti a distribuire mele, raccolte in una cesta. Il peccato originale abbonda, anche perché è di un peccato, che ha originato la fine dei vecchi conflitti e l’inizio dei nuovi, che si parla. Little Boy è il vezzeggiativo statunitense con il quale i marines battezzarono la bomba di Hiroshima, quella della fine, annunciata e auspicata, della seconda guerra mondiale. Ma non si parlerà delle 70.000 vittime consumate nel giro di pochi istanti, né della mattanza, triplicata nei numeri, di quelle che verranno a causa delle radiazioni. La rappresentazione, in prima assoluta, prodotta dal Teatro dell’Elce e per la quale hanno contribuito una serie considerevole e pregiata di produzioni e residenze artistiche, per la regia e gli adattamenti di Marco Di Costanzo e offerta al pubblico da Erik Haglund, Stefano Parigi e Monica Santoro racconta invece del carteggio corrispondenziale intessuto tra il filosofo tedesco Gunther Stern, ribattezzato, dietro suggerimenti editoriali, Anders e Claude Eatherly, l’ex meteorologo assoldato dall’esercito in qualità di ufficiale dell’aeronautica statunitense e pilota del caccia che sganciò la prima bomba atomica della storia, uno Zibaldone sotteso tra il 1959 e il 1960 tra chi aveva previsto l’invasione algoritmica dei media sull’umanità e per questo profondo anti militarista e una delle vittime inconsapevolmente più illustri dei conflitti.
Ma non è degli inevitabili scompensi psichiatrici del temerario e inconsapevole aviatore che si parlerà, tenuto cautelativamente in ospedale per lunghissimi anni, ma della Diskrepanzphilosophie (la filosofia della discrepanza), per riuscire a descrivere, e a crearne uno spettacolo, tra quello che la scienza e la tecnica hanno reso possibile (la bomba atomica) e quello che la mente umana è capace di immaginare, capire, metabolizzare. Il palco è ordinatamente occupato da possenti pile di libri; l’aviatore (Erik Haglund), in pigiama, viene ipnotizzato da una delle mele guidate, alternativamente, dal filosofo (Stefano Parigi) e dalla sua assistente (Monica Santoro) sottratte preventivamente dalla cesta prima della distribuzione all’ingresso. Si snocciolano le lettere scritte e recapitate in sequenza tra l’intellettuale e il militare e si parla della tragedia personale, difficilmente quantificabile, del carnefice volante, incapace di rendere pace al proprio immane dolore. Uno spettacolo tragicomico tenuto in piedi con qualche stento attoriale e forse spalmato su un arco di tempo troppo generoso, ma complessivamente gradevole, per nulla retorico. Una rappresentazione intelligente, scenograficamente debitamente curata (Beatrice Ficalbi), che si sovrappone costantemente con ordine e disciplina, anche se il dolore, personale, collettivo, generazionale, epocale, si potrebbe aggiungere, non riesce a prendere per mano gli spettatori, che hanno comunque ricambiato gli sforzi complessivi con un caloroso applauso finale. Ma parlarne, di Little Boy, è cosa buona e giusta, non foss’altro per certificare che di carnefici virtualmente inconsapevoli e vittime tristemente registrate, la storia dell’umanità, ne ha continuate a proporre e sacrificare un’enormità e non sembra che la ragione, la cultura e la conoscenza stiano riuscendo a fermare questa meravigliosa e diabolica macchina infernale, sulla quale, ormai, almeno un giro, per vedere che effetto fa, lo vogliamo fare tutti. Dopo poi, se proprio non abbiamo capito cosa ci volessero dire e di cosa si è trattato, la mela, buonissima, quella che ci è stata data prima, a titolo di rimborso cautelare, l’addentiamo saporitamente al ritorno, verso casa.
