
PONTEDERA (PI). L’esortazione è chiara, la suggerisce Bobby McFerrin: Don’t worry, be happy. Ma Vincenzo Cannavacciuolo non c’è più e senza Bobò, La Gioia, è un’altra cosa, forse indecifrabile, forse esattamente il contrario: dolore, assenza, solitudine. Al Teatro dell’Era, comunque, a Pontedera, l’assenza letale della ragion d’essere dello spettacolo, che forse dovrebbe suggerire all’ideatore l’ammutinamento, non crea il minimo disagio: il pubblico, che riempie la platea, nonostante non riesca a comprendere buona parte delle confessioni microfonate di Pippo Delbono - luminare del teatro avanguardistico da Pina Bausch in poi -, perché decisamente e visibilmente in debito con la forma e la giusta rabbia, non aspetta la fine della rappresentazione per tributare alla compagnia un massiccio omaggio di applausi; lo fa in più di un’occasione, come se si trattasse di uno spettacolo televisivo, un Carramba che sorpresa qualsiasi, con colpi di scena pilotati, una Corrida, con l’interpretazione, grottesca e surreale se fosse durata il tempo di un accenno, non tutta Maledetta primavera di Loretta Goggi o nella migliore delle ipotesi, un Indietro tutta, con un ingiustificato perché troppo avaro ringraziamento, Je so’ pazzo, al vate della follia e del suo riscatto, Pino Daniele.
Resta una fotografia meravigliosa, anzi, più fotografie, fino a rasentare la pittura, quelle che si compongono e decompongono costantemente sulla scena, attori/amici/tecnicidiscena/manovali che disseminano il proscenio di barchette di carta, le stesse sulle quali, spesso, alla ricerca de La Gioia, salgono disperati guidati da criminali e arrivano, esausti, sulla punta meridionale dell’Europa, per poi riprendersele e fare posto a indumenti usati chissà da chi e rivenduti al mercato dell’usato, liberati da grossi sacchi di plastica e sparpagliati, senza criterio e regola, sul bancone del Teatro, in attesa dei migliori offerenti, a patto che se ne trovino, a patto che ce ne siano. Fino ad arrivare a tanti piccoli ritagli di carta, che offrono la sensazione di un viale costellato di foglie gialle e secche che porta al tramonto, ineludibile, epilogo scritto di tutte Le Gioie, compresa quella di riuscire a vivere. Lo spettacolo con Bobò, però, non l’abbiamo visto e questo sequel/omaggio/ringraziamento, così come dichiarato dallo steso autore, regista, operatore sanitario, intrattenitore recluso all’interno di sbarre create dal suo status e quello della società tutta, incarcerata dentro la ricerca de La Gioia, lo si sarebbe potuto chiamare con un altro nome o forse, ma questo lo diciamo noi, si sarebbe potuto non fare. La biografia di Pippo Delbono non ne avrebbe minimamente risentito, perché nessuno, tra tutti quelli che ne hanno goduto nel tempo emozioni meravigliose, quelle scandite quando con il vate, sul palco, sottratto a un epilogo anonimo e senza alcun tributo giornalistico, c’era quel piccolo, meraviglioso perché falsamente insignificante sordomuto acefalo analfabeta attorno al quale sono state costruite, nel tempo, Barboni, Urlo, Il silenzio, Guerra, La menzogna, La rabbia, Vangelo, si sarebbe sentito orfano delle sue grida, delle sue nuove scoperte sull’eternità. Il tratto autoreferenziale dell’intera rappresentazione è decisamente eccessivo, ingombrante: il Teatro è quella barca sulla quale lo spettatore deve sentire la necessità di salire a bordo per riuscire a capire fino in fondo le emozioni con il terrore, qualora siano eccessive, di esserne risucchiato. Altrimenti, è spettacolo, di alto o basso lignaggio, con i nani e le ballerine che si agitano sulla scena saltabeccando sulle note di A far l’amore comincia tu, tanto per fare uno degli esempi più atrocemente popolari, chicca dalla quale Pippo Delbono, felliniano doc, ci ha fortunatamente esentato, a differenza di Paolo Sorrentino, maestro di spettacolo, di Grandi bellezze e nessuna emozione.
