FIRENZE.  Fuggito dalla ressa o condannato alla solitudine? Non si capisce, né Lucia Calamaro, che ha scritto e diretto Si nota all’imbrunire (alla Pergola di Firenze fino a domenica 24 novembre), vuole forse che si capisca. Il suo intento, affidato all’impeccabile tragicomicità di Silvio Orlando, risiede nell’intimità dell’abbandono, spesso da noi stessi, che può essere una scelta; o una sentenza. O tutti e due. Anzi, spesso è proprio così: tutto può avere inizio con il sentire la necessità di staccare la spina, ma spesso si finisce con il non riuscire a ritrovare più la presa della corrente: l’Europa, infatti, inizia a considerarlo un vero e proprio virus generazionale, con tanto di attenzioni sociali e studi dettagliati. L’anziano padre, medico in pensione e vedovo da tre anni, da qualche tempo si è rifugiato in un’accogliente villetta di campagna di un paese spopolato e alla vigilia del suo compleanno, che coincide con il giorno della morte della moglie, avvenuto dieci anni prima, i tre figli, Alice (Redini), Maria Laura (Rondanini) e Vincenzo (Nemolato), decidono di andare a trovarlo. Con loro, anche lo zio, il fratello maggiore, Roberto (Nobile), forse l’anello più debole della rappresentazione.

Il tratto onirico e beckettiano dell’intero spettacolo però, probabilmente perché imbrigliato nell’alchimia dittatoriale della regista, soffre di un eccessivo rigore sintattico, obbligando tutti a una misurata insofferenza, dai contorni radical chic, quelli che tanto piacciono alla sinistra italiana, la borghesia europea. Anche la scenografia, le luci, i colori, gli abbigliamenti dei cinque protagonisti risentono, eccessivamente, di un controllo totale; sembra che nessuno si possa permettere il lusso di dimenticare, scartare e cadere. L’idea, comunque, resta apprezzabile, soprattutto perché nasce dalla volontà di non sottomettersi al Teatro di regime senza però strizzare l’occhio a quello, altrettanto dispotico e sovente ancor più irritante, della controinformazione. Anche l’amalgama familiare sostiene la storia, che si dilunga un po’ eccessivamente, senza che se ne avverta la necessità, prima ancora dell’indispensabilità. L’epicentrismo attoriale di Silvio Orlando attorno al quale ruota l’intera rappresentazione, se da una parte conferma la sua innegabile, riconosciuta e applaudita duttilità recitativa, soprattutto in un contesto/copione che gli chiede di indossare gli abiti costruitigli su misura dai tempi degli esordi cinematografici con Nanni Moretti, dall’altra mortifica le velleità dei comprimari, sicuramente quelle di Vincenzo Nemolato, il gomorrista dissociato, non certo pentito, costretto a restare cucito in uno spazio che non gli consente di essere, come ventiliamo vorrebbe e siamo convinti saprebbe, allo stesso tempo, il figlio che ha più deluso le aspettative genitoriali, ma anche, forse perché unico maschio, quello che ha chiesto meno degli altri. Una famiglia che si sorregge con estrema disinvoltura senza alcun patema economico nonostante, a parte la lunga e nobile carriera sanitaria del padre, nessuno, dei figli, sia riuscito a fare qualcosa di socialmente apprezzabile: una poetessa fallita e fallimentare (Alice Redini) in cerca di una vis che riesce solo a scimmiottare, una biologa/ricercatrice/o cos’altro (Maria Laura Rondanini), vittima e succube dei suoi sterili e inutili perfezionismi e un laureando in medicina (Vincenzo Nemolato) che ha mollato gli studi per intraprendere la carriera borderline del nobile truffatore ambientale. È questo l’anello più debole dell’idea della regista: la solitudine, scelta, indotta, figlia di deliri e/o frustrazioni, lutti o abbandoni, morbi o distrazioni, che resta - e purtroppo è destinata a esserlo sempre di più - una vera e propria malattia, viene trattata con eccessiva moderazione teatrale e soprattutto se ne prende a campione una di quelle meno tragiche, più facilmente aggredibili, di cui se ne sentirà parlare poco. E sottovoce. Specie nei salotti, quelli dove la sinistra ha deciso di tirare le cuoia, sorseggiando whisky scozzese.

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