
PRATO. Che ci serva da lezione, almeno professionalmente: contare fino a dieci, prima di scrivere. È vero, ci sono troppi consigli per gli acquisti, ne La valle dell’Eden, troppa pubblicità del marchio Latella, soprattutto nella prima parte, quella che abbiamo recensito sospesi; però va visto, consigliando a chi si sottoporrà alla maratona del Metastasio, domani, domenica 24 novembre (circa sei ore, distribuite tra il pomeriggio e la sera) di stringere i denti nel primo tempo, perché nel secondo, sarà ampliamente consolato, da una pagina teatrale che rimarrà impressa nel firmamento. Superlativo, senza se e senza ma, con un monumentale, fantascientifico (e con gli aggettivi roboanti si potrebbe proseguire per ore, senza stancarsi e senza eccedere) Michele Di Mauro, un Tom Waits imbolsito dall’alcool e tutti gli altri in fila a non scendere mai di un solo gradino dall’Olimpo. Ci avevano leggermente insolentito, nel primo atto, alcune alchimie escogitate da Antonio Latella, che avevano inutilmente appesantito e dilungato una premessa che pareva meno indispensabile, ricca di irritanti distrazioni scenografiche, che ci stavano pericolosamente suggerendo di celebrare un’altra estrema unzione di uno dei pochi intellettuali del palcoscenico rimasti in vita e lucidi.
Aveva scherzato, da buon provocatore quale non vuole smettere di essere, Antonio Latella, un gruppettaro, uno di quelli che nelle due ondate meravigliosamente inutili, anzi, dannose, del ’68 e del ’77, era inviso tanto alla destra, quanto alla sinistra, perché fuori dal coro, dagli stereotipi, dagli schemi nei quali occorre necessariamente iscriversi, non foss’altro per sapere con chi si dovrà combattere e da chi si verrà difesi. Il primo atto del secondo tempo è una meravigliosa lezione, prima di tutto e dopo ogni considerazione morale, di teatro: colloqui profondi, provocanti, politicamente scorretti oltre ogni ragionevole insubordinazione, che approfittano di quanto già pubblicato nelle Sacre Scritture, prima e nel capolavoro di John Steinbeck, dopo, per arrivare a noi, ma non oggi, a noi di sempre, per sempre, con La valle dell’Eden lì, a portata di mano, struggente chimera esistenziale e quotidiana che non è una zona indicata dalle mappe, come del resto Salinas, il Purgatorio, la vacanza alternativa, ma uno stato dello Spirito: Tu puoi. La cornice del pensiero è una palcoscenico sgombro fin nelle viscere, con lo sguardo che arriva nei camerini. Davanti a tutti, poco spostata sulla destra, la sedia in legno con lo schienale rivolto al pubblico, dove si accomoderà, per tre quarti dell’intera maratona, Annibale Pavone, asettico, incapace di odiare e amare, nella stessa devastante misura, alle prese con un amore comprato e non rimborsato, due figli cresciuti solo materialmente, che lo ripagheranno di compassione e vergogna; Massimiliano Speziani, il servo devoto, che non perde occasione per come elevarsi e diventare, in punta dei piedi, l’anello di congiunzione tra il suo padrone greve e la vita che lo aspetta per essere vissuta, scarnificata, usata, violentata, consumata; Christian La Rosa ed Emiliano Masala, i fratelli, Caino e Abele, che ripercorrono, a ritroso, la loro esistenza, reincarnandosi nei figli di Adam Trask, adolescenti spensierati giocherelloni che diverranno, prima di aver tentato inutilmente la strada collegiale e quella della coltivazione, gli operai edili che porteranno a termine, con rabbia livida, il bordello nel quale è andata a vivere, dopo averli abbandonati in fasce, la loro madre, Elisabetta Valgoi, stordita dalla vita e dal dolore, che invece di essere riconoscente con chi l’ha strappata dalla mortificazione, deciderà di vendicarsi, da infallibile e richiestissima prostituta, con gli ultimi dei suoi aguzzini, il marito, il cognato, i figli e tutti i suoi clienti, personaggi illustri della vita politica e della società che lontano dai riflettori necessitano di impudicizia e perversione, un omaggio cinematografico a Kim Ki duk e a uno dei suoi capolavori, La Samaritana. Con una voce narrante, pregiato diaframma a cappella, madre e maitresse, Candida Nieri, la sagoma femminile di Antonio Latella, un Masaniello distratto, che sovente si dimentica del suo popolo, gli spettatori, vigile architetto, con licenza, ma sprovvisto del permesso di costruire, di un mostruoso grattacielo di parole, silenzi, immagini, suoni, odori, al quale porgiamo umilmente le nostre scuse per non aver capito, immediatamente, di quale capolavoro ci stesse facendo omaggio.
