FIRENZE. Il continuo mulinare delle mani, che cadenza il dolore, divide a scompartimenti stagni la memoria, cronicizza la storia. Mentre a Lampedusa, proveniente dalle coste africane, è in arrivo un altro barcone con a bordo disperazioni inimmaginabili e inquantificabili, lo zio Peppe, suo zio, muore in Continente, vinto dal cancro. L’abisso si muove tra queste due estremità, che Davide Enia raccoglie con poesia su un palcoscenico (in questo caso quello del Cantiere Florida, a Firenze) illuminato a malapena, in compagnia di un indispensabile strumentista, Giulio Brocchieri, che accompagna, da tempo, i mimi del pupo palermitano per poi decidere di prendere il sopravvento quando il dolore assume i contorni di qualcosa che non si può raccontare, ma solo perché non si riesce a farlo. Lo spettacolo prende vita dal successo raccolto dall’attore con la pubblicazione del libro Appunti per un naufragio, dove racconta le stesse cose, quelle che si susseguono sull’isola delle sepolture anonime, ormai da un ventennio, la frontiera dell’umanità, da quando di là dal mare ad alcuni acuti dittatori sono succeduti macellai senza scrupoli che hanno fatto la fortuna e la felicità, in attesa, sull’altra sponda del Mediterraneo, di qua dal mare, di demagoghi e criminali abilmente organizzati.

Ma non è di questo che Davide Enia vuole parlare: qui, ed ora, va in scena la disperazione, quella che solo l’abilità di un sommozzatore qualsiasi, anche del nord, nient’affatto di sinistra, riesce a lenire e a trasformare in speranza, una speranza nuova, anche se presto, molto presto, dovrà infrangersi con il tragico realismo occidentale. Quella disperazione che ti ha spinto a lasciare il posto dove sei nato, costellato da miseria, ignoranza, superstizioni, violenze, soprusi, sopraffazioni per provare a riuscire a sopravvivere, con qualche stento in meno e una luce, seppur fioca, negli occhi, oltre le centinaia di chilometri di acqua salata. Lampedusa è un casello umanitario al quale la maggior parte dei viandanti giunge senza documenti, forze, speranze ed è equidistante dalle coste maledette del mittente come da quelle edulcorate dei destinatari. I viaggiatori ordinari sorvolano quella frontiera sul mare; tutti gli altri ci arrivano con bussole disarcionate, mari in tempesta, bambini in grembo costretti a nascere seppur figli di odio e disprezzo. Molti di loro, stremati dal dolore e dalle violenze, arrivano tardi a destinazione; ci pensa Vincenzo a render loro, almeno da morti, un po’ di umanità, anche se per farlo occorre che si turi il naso con le foglie di menta, altrimenti, il fetore, sarebbe insopportabile e il vomito non gli consentirebbe di ripulire le carcasse di quei pesci muti, piccoli e grandi, sepolti, spesso, sotto l’effige sbagliata, una croce, che non rappresenta il dio al quale credevano quando sono partiti e che non faranno in tempo a smascherare quale impostore chirurgo della loro sottomissione. La rappresentazione è una bellissima pagina di narrazione, con delle semirette che disegnano l’habitat del racconto, la casa degli amici che ospitano il regista, le conversazioni impossibili con suo padre muto, la lieta e agguerrita agonia dello zio, la complicità della fidanzata che ha preferito restare a casa, ma che non gli chiede di tornare presto, l’urlo fioco della disperazione che non ha un nome, men che mai un cognome e nemmeno un amico che possa interpretare le sue paure e i suoi sogni. Una rappresentazione che riesce, con qualche affanno, a non farsi ingolfare dal politicamente inevitabile che è lì, in agguato e che in più di un’occasione prova a prendere il sopravvento sulla poesia; e un’altrettanto bella occasione attoriale minimale, dove a una scenografia volutamente inesistente corre in soccorso la parola, il suono, le luci che vengono da dentro, le marionette del teatro siciliano, da dove il mattatore proviene, dove ha imparato molto, tutto, quasi tutto, meno che spettinarsi con cura e non far trasparire, sotto la pioggia degli applausi, la benché minima emozione.

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