FIRENZE. Ventidue secoli e, se ne può ancora parlare. La storia, anzi, la leggenda di Anfitrione è una di quelle con le quali ci si sono misurati in tanti, nel tempo, compreso Luigi Pirandello. Figuriamoci se Filippo Dini se ne sarebbe potuto e voluto esentare. E allora, in scena (alla Pergola di Firenze; si replica fino a domani pomeriggio, domenica 1 dicembre), con Gigio Alberti nei panni di Giove, Barbara Bobulova in quelli di Alcmena, Antonio Catania è Anfitrione, Giovanni Esposito il suo autista/tuttofare, Valerio Santoro invece è Mercurio e Valeria Angelozzi la cameriera della casa reale, fidanzata con l’autista. Ma non siamo con le bighe e gli imperatori, ma in Emilia Romagna, nel terzo millennio, alla vigilia delle elezioni: Antonio Catania è un umile politicante in debito con la consecutio temporum e nonostante gli exit pool lo dessero abbondantemente sotto il quorum, alle elezioni sbaraglia gli avversari e ottiene percentuali plebiscitarie. Barbara Bobulova è sua moglie, professoressa delle scuole medie primarie, con Valeria Angelozzi cameriera di una casa che in una notte si trasformerà nella residenza del Presidente del Consiglio (gli apparentamenti poltici, si sprecano: si può intravedere chiunque). La comicità, paradossale, prende immediatamente il sopravvento: l’autista, portaborse, aspirante corazziere, nonostante non sia un vatusso, è napoletano: conosce l’arte della strada, conosce i trucchi del mestiere, ma ignora il profondo dell’inconscio e al cospetto delle alchimie di Giove, è convinto di impazzire.

Anche il neo presidente del Consiglio, atteso al Quirinale per l’investitura ufficiale da parte del Presidente della Repubblica, è un faccendiere di bassa lega, populista come ce ne sono tanti, oggi, decisamente troppi e anche lui incapace di capire cosa gli stia succedendo attorno, che Giove, con la complicità di Mercurio, ha preso i suoi abiti solo per possedere, una notte interminabile, sua moglie. L’unica, sulla scena, che riesce a intuire che dietro questi apparenti sdoppiamenti di persone, prima che di personalità, si nasconda la mano di un essere superiore, è l’umile cameriera, che non crede che il suo ragazzo, la sua padrona e suo marito, improvvisamente, soffrano, contemporaneamente, di allucinazioni. I tempi comici, cari all’ilarità in bianco e nero di Stanlio e Ollio, sono in perfetta sintonia con la rappresentazione; Filippo Dini, del resto, non ha certo bisogno di maestri, ma nonostante la platea, quasi gremita in ogni ordine di posti, abbia risposto con poderose risate, anche su battute decisamente poco elettrizzanti e scontate, per noi, qualcosa di importante, è mancato. Non certo Sosia, arrangiatore e sognatore seriale, troppo umile per riuscire a scardinare il complesso impianto divino ordito da Giove, un Berlusconi qualsiasi, che sfoggia invidiabili addominali e si incaponisce nell’arte seduttiva. Nemmeno l’onorevole Anfitrione tradisce le aspettative del pubblico: la sua scarsa moralità è bonariamente irritante, quanto basta per salvarlo e non farlo scomparire alle elezioni successive. E nulla si può certo imputare a Mercurio e alla cameriera: non sono certo loro a poter e dover dare, alla rappresentazione, lo smalto meno delebile. L’anello debole di questa commedia satirica, eterna, riadattabile in ogni contesto, buona e attuale in questi giorni nostri tristi, ma anche in quelli che ci siamo lasciati alle spalle e quelli che dovremo ancora subire, è proprio Alcmena e la sua misurata passione, tanto nel concedersi con immotivata parsimonia alle attenzioni sensuali di un piacevolmente imprevedibile marito, quanto nel ripudiare la sua doppia e stridente personalità, caldo e sensuale al risveglio - seppur sotto mentite spoglie divine - dopo una notte nella quale ha saputo dimostrare tutte le sue arti divinatorie e irriconoscibile, perché brutale e pressapochista, durante la giornata.  

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