
PRATO. Una catastrofe a cascata quella innescata dalla ferma e incontrovertibile convinzione di Creonte, un Che Guevara dell’antica Grecia, che si ravvede tardi, nonostante i funerei presagi di Tiresia. E non si scompone minimamente nemmeno Massimiliano Civica, qualsiasi cosa decida di rappresentare. Anche con Antigone, di Sofocle, come se fosse un Quaderno per l’inverno, la scenografia deve essere inesistete, più che minimalista. Sì, certo, sulla sinistra del proscenio giace un manichino prussiano, il corpo di Polinice, lasciato in pasto a uccelli e randagi, reo di aver sfidato e ucciso il fratello contro la sua gente. Ma al Teatro ci pensano, anzi, ci devono pensare, le parole e in questa occasione, una prima assoluta, battezzata e prodotta dal Teatro Metastasio e portata in scena al Fabbricone di Prato (si replica fino a domenica prossima, 8 dicembre), la squadra del mister è di sontuoso rispetto: nei panni di Corifeo, un maggiordomo/cronista e voce di coscienza popolare, c’è Marcello Sambati, che prova a ricondurre a ragionevolezza l’umana irresponsabilità del comandante Ernesto Creonte, un Oscar De Summa un po’ meno brillante del solito, forse per il plumbeo atmosferico, o per l’indebita sottrazione degli orecchi da entrambi i lobi (certo, di Comandanti, con gli orecchini, se ne vedono pochi),
che crede doveroso far rispettare la tragica, ma necessaria, legge degli uomini, anche quando questa deve contemplare il divieto assoluto alla sepoltura di un uomo, macchiatosi di alto tradimento, ma pur sempre figlio della sua terra. L’unico impedimento alla sua ferrea applicazione è rappresentato, oltraggio doppio, da una donna, Antigone, travestita da Monica Piseddu, che nonostante un raffreddore oltre ogni ragionevole costipazione, estrae dal cilindro l’ennesima tragica stratosferica performance, dando anche un piccolo, disinvolto, ma esemplare saggio alle aspiranti modelle, disegnando la deambulazione e la velocità con le quali si riguadagna l’uscita dalla passerella, promessa sposa di suo figlio, che decide, disobbedendo, di dare comunque sepoltura al fratello e avviarsi così, ancora vergine, alla sua condanna a morte, sadica e feroce, come quella toccata in sorte alla moglie del tragico e inconsapevole uxoricida nel Gatto nero di Edgar Allan Poe. A completare la scena, Monica Demuru, che veste i panni di Ismene, la sorella meno eroica, perché razionale e devota alle leggi, Tiresia, la Cassandra cieca e Euridice, la moglie di Creonte. Ultimo, ma nient’affatto ultimo, Francesco Rotelli, che il regista sposta sapientemente dalla sua storica roccaforte de Gli Omini (l’ha già fatto brillantemente con Luca Zacchini: operazione Ubu) e lo catapulta in un altro Continente, facendogli fare esemplarmente l’Omino: guardia ciociara (romana e romanesca, noi, non possiamo passargliela del tutto) che distribuisce due o tre esemplari risate spacca/tragedia e poi Emone, figlio che prova a suggerire al padre accecato dal rigore la via della ragionevolezza. La squadra, eterogenea, lontana, multietnica e multiattoriale, funziona comunque alla perfezione; tanto chi è sul dischetto intento a calciare il penalty, quanto chi siede in panchina (l’unico reale suppellettile scenografico) e aspetta, con partecipazione e coinvolgimento totale, il momento nel quale l’allenatore decide di buttarlo nella mischia, per continuare a tessere il gioco e le geometrie di chi andrà a sostituire. Tornando a Sofocle, non possiamo che intenerirci e digrignare i denti al cospetto della ragionevole veemenza suicida di Antigone, così come non ci possiamo sottrarre dall’applaudire il rigore di Creonte, che avrebbe dovuto non piegarsi a ripensamenti, nemmeno se a pagare il fio dell’indisciplina tocchi poi a una futura nuora: colpirne uno, per educarne cento.
