FIRENZE. Non basta conoscere William Shakespeare, le sue opere, la loro cronologia e sapere che La tempesta sia la sua fiaba del congedo dalla storia e l’automatica immissione nella leggenda. Nella Tempesta occorre cascarci dentro, perdercisi e poi risalire a pelo d’acqua e ripreso l’ossigeno dispensato nella lunga apnea, provare a capire. E anche allora, non è detto che tutto si disveli. Dopo aver visto la trasposizione teatrale alla Pergola, a Firenze (si replica stasera, domani e domenica 8 dicembre), i collegamenti tra la vita e la morte, il passato e il futuro, la sopravvivenza storica, redentiva, aumentano, paradossalmente, l’ingarbugliamento morale tessuto dalle semirette tracciate dal drammaturgo inglese, che si fa Prospero (un magistrale Renato Carpentieri) e ordisce, su quest’isola sperduta del Mediterraneo (sempre di moda, anche prima dell’esodo biblico in atto), la Tempesta chiarificatrice, quella che consegnerà a Miranda, la figlia (Giulia Andò), che aspetta con lo spiritello Ariel e lo schiavo Calibano (rispettivamente Filippo Luna e Vincenzo Pirrotta) le chiavi del futuro, costellato dall’amore, chimico e immediato,

con un altro degli scampati al naufragio, Ferdinando (Paolo Briguglia), figlio del Re di Napoli Alonzo, il consigliere Gonzalo (Gianni Salvo) e Antonio, fratello di Prospero (Paride Benassai), tutti volutamente incolumi e per questo condannati a proseguire il cammino della storia. Una storia, prodotta dal Teatro Biondo di Palermo, tradotta da Nadia Fusani e affidata alla regia di Roberto Andò, tassonomica fino all’esasperazione e che si avvale di una scenografia letteralmente monumentale (Gianni Carluccio, Giuseppe Ciaccio, Sebastiana Di Gesù e Carlo Gillè) che racconta, in due atti, che si aprono e chiudono con un sipario che trasuda e sgocciola acqua di mare, la Tempesta che vive e convive all’interno di ognuno di noi e con la quale occorre necessariamente farci i conti, metabolizzandola prima e utilizzandola dopo, quando ci si è dovuti irrimediabilmente arrendersi all’idea che dalle sciagure non possiamo esentarci. Per questo, in scena, tutti i personaggi deambulano con gli stivali da pescatore; sul proscenio ci sono dieci centimetri d’acqua e tutti, residenti e naufraghi, vivono il disagio dell’intemperia, così come gli spettatori dovrebbero calarsi nella mente di Prospero, ideatore di un disastro che gli consentirà di anticipare il proprio congedo dall’umanità senza aver dimenticato di consegnare prima della sua dipartita alla figlia le chiavi dell’eternità, un lieto fine classico delle romance nel quale si confondono il perdono, elemento indispensabile e insostituibile per la convivenza e le contaminazioni, anche se immeritato, fulcro necessario per le generazioni che verranno e che dovranno venire e la ragionevolezza delle sconfitte. Una tragedia indispensabile, che si ripete ciclicamente, dalla quale l'umanità deve per forza di cose uscirne viva e soprattutto migliorata. La cosa che fa didatticamente difetto a questa faraonica messinscena è, forse, la sua scarsa perforabilità; ci vorrebbe forse un po’ più di didascalia teatrale, qualche monumentale accorgimento scenografico in meno e una più diretta visibilità, anche a costo di dover e voler rinunciare a qualche fedeltà storica, soprattutto per il pubblico più giovane (che, per fortuna, grazie agli impegni degli Istituti superiori, bazzica sistematicamente le platee), che è quello che popolerà, ci auguriamo, i teatri di domani e che sarà soprattutto quello che imparerà a convivere con le Tempeste, cercando prima di tutto di prevenirle e poi, riuscendo a trarne, oltre che subirne dolore e disperazione, importanti lezioni per il futuro. Che non cesserà di essere un orizzonte puntualmente verificabile e sistematicamente irraggiungibile.

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