
PISTOIA. Ormai è conclamato: con William Shakespeare si può fare di tutto, specialmente ne La tempesta, il suo ultimo manifesto, le sue volontà. Il Teatro del Carretto, al Funaro di Pistoia, in prima regionale, ne ha offerto una versione particolarmente brillante, con un Prospero biblico, particolarmente accigliato (il fisico imponente di Teodoro Giuliani ne ha facilitato la proiezione), presagio di disastri, padre/padrone affettivo/compulsivo che non riesce a sciogliersi nemmeno al cospetto della straordinaria Elsa Bossi, la figlia Miranda, che è poi anche Ariel e vocalist impeccabile, soprattutto, ardentemente desiderosa di trovare il proprio principe azzurro, che è lì a due passi (Fabio Pappacena), anche lui, per esigenze attoriali, uno e trino, un po’ Ferdinando, un po’ Calibano e puntuale apprezzabile diaframma. Al posto dell’acqua, sull’isola che non c’è o che comunque la si può inventare o immaginare, c’è un mare di libri, che solo Prospero ha diritto di calpestare con stivali texani; gli altri due della Compagnia del Carretto invece sono provvidenzialmente scalzi. Certo, devono muoversi più agilmente, migrare e trasmigrare in altri corpi e suggestioni e poi, devono cantare e in virtù delle ultime disposizioni teatrali, bisogna stare a piedi nudi.
Ma non è dell’interpretazione shakespeariana che vogliamo parlarvi; anche perché, dopo La tempesta di Roberto Andò vista alla Pergola di Firenze 48 ore prima, si potrebbe istituire un lunghissimo dibattito, a riguardo e sposare, come veritiere e attinenti, tutte le versioni praticate, senza riuscire a stabilire, con matematica certezza, le singole posizioni. La tempesta del Funaro ci ha catturato da un punto di osservazione semplicemente e esemplarmente teatrale: le voci, i corpi, la ginnastica, la coralità. Se poi Prospero abbia o meno ordito il naufragio, preoccupandosi di lasciare incolumi tutti gli abitanti dell’imbarcazione squassata e mandata alla deriva, anzi, a più derive, raccogliendo così, attorno a sé, i suoi cari e i suoi nemici, per la piacevole resa dei conti con tanto di finale a lieto fine; se l’isola che non c’è è un rifugio di dannati costretti all’espiazione o l’esilio degli intellettuali spodestati che possono così ricostituire il proprio regno; se quella lingua di terra sospesa nel mare è una raccolta di buoni propositi lasciati in eredità a chi dovrà prendersi cura di continuare a fare i conti con le sorti dell’umana specie; se è il Re di Napoli ad aver sovvertito quello di Milano o se è stato il fratello geloso a prendere il suo trono; su tutto questo non sappiamo cosa rispondervi e non ci concentreremo nemmeno un istante per riuscire a farlo. Ma se tutto quello che si sa su William Shakespeare e la sua Tempesta e su come ci si debba deontologicamente comportare quando ci si accinge a parlarne, in particolar modo a teatro, deve soddisfare il piacere di una serata, acuire la curiosità circa la vita e le opere dell’immenso drammaturgo inglese e consentire a chi preferisce l’esenzione dall’automazione televisiva o culinaria del sabato sera e assistere, alternativamente a un apericena o a una striscia di bamba, a una performance attoriale degna di essere segnalata, recensita e non dimenticata, bene, La tempesta della Compagnia del Carretto è qualcosa che vi consigliamo di non perdervi: curata minuziosamente e intelligentemente nei dettagli scenografici senza aver fatto ricorso a stratagemmi particolarmente onerosi e dispendiosi, offre, con poderosa fisicità, pulizia timbrica, indiscussa amalgama e una dose di sottile ironia, una rappresentazione teatrale degna di essere registrata. E consigliata.
