
PRATO. La cosa più originale è la canzone che chiude la rappresentazione, con un Tiziano Ferro sontuoso. Il resto de Il gabbiano è tutto già visto, anche se il secondo atto (nel primo no, purtroppo) della giovane Giulia Mazzarino merita attenzione, non solo per le lacrime versate, vere, sofferte, di totale immedesimazione, scorte agli applausi finali, con il rigo del rimmel lungo la guancia. Licia Lanera, regista e protagonista di questa trasposizione teatrale cechoviana (al Metastasio di Prato, che coproduce lo spettacolo; ultima replica oggi pomeriggio, domenica 15 dicembre), con la Medusa a tinta unita tatuata su una spalla e vari scarabocchi multicolor sull’avambraccio dell’altro braccio, gioca sul sicuro e imbastisce una rilettura che non scontenta nessuno; con Anton Cechov, del resto, succede così, in particolar modo ne Il gabbiano, con il quale tutti vogliono misurarsi, anche se poi nessuno osa scarnificarlo; quest’ultima operazione richiede tempo e lavoro, meglio accontentarsi di piccoli accorgimenti scenografici, a tutto il resto c’ha già pensato lui, il drammaturgo russo, che aveva già intravisto la decadenza umana, non solo quella che popola la provincia.
Spettacolo piacevolissimo, comunque, con una neve fitta, densa, ma soave, che imbianca la casa/ring nella quale tutti i protagonisti sono costretti a (con)vivere anche in piena estate; è il prologo al freddo che verrà, climatico e umano e nel quale piomberanno tutti, vincitori e vinti. Dalle attrici di fama agli scrittori incensati, dalle giovani aspiranti alle penne di domani, dalle amanti deluse ai mariti premiati, dagli impiegati ministeriali di lungo corso (la Fornero doveva ancora nascere, perché allora, 28 anni di contributi, bastavano per essere pensionati) a tutti quelli con i sogni nel cassetto lasciati lì, con il terrore di vederli vanificare e senza alcun rimpianto di non aver osato. A tutto questo però, che dalle prime classi delle scuole primarie di secondo grado è noto, occorre aggiungere qualcosa, altrimenti, è pura didattica e mirabile esercizio attoriale. Stiamo ancora aspettando, in gloria, che qualcuno (osiamo dei nomi: Timi, Latini, Perinelli, Latella) prenda questo Gabbiano e lo sventri, mutilandolo, facendogli del male, con il rischio di ricevere una denuncia da parte del Wwwf e una bordata di fischi da quella parte di pubblico che non vuole essere infastidito. O, alternativamente, rappresentarlo nelle scuole, per chi di Cechov, purtroppo, sa poco e nulla e dunque inizia a consapevolizzarsi su quello che gli riserverà la vita. Perché di questi Gabbiano ne abbiamo già viste varie rappresentazioni e ogni volta, al di là degli escamotages adottati, la sostanza resta immutata. Che qualcuno si prenda la briga di avere meno ispirazione e più senso critico, che invece di un suicidio affidi l’epilogo a un assassinio, che la scena del bacio sia più fisica e meno retorica, che la gelosia non sia così misurata, ma becera, isterica e violenta come ai giorni nostri, che sono quelli nei quali si contano le donne ammazzate per amore, che Cechov, insomma, si rivolti nella tomba e chieda spiegazioni a quel bellimbusto/a che si è permesso il lusso di stravolgerlo; gli abbonati abbandoneranno, indignati, le plateee, stringendosi forti nelle pellicce; gli studenti chiederanno alle professoresse che li hanno accompagnati/obbligati a teatro cosa mai siano venuti a vedere, soprattutto perché quello che avevano detto loro la mattina, in classe, era un’altra cosa e quei pochi che chiedono al teatro provocazione, minaccia e tormenti, tornare verso casa con il dubbio, più assillante del solito, di aver sbagliato praticamente tutto, che le loro piccole oasi (la famiglia, la casa, il lavoro) sono una pacchia virtuale alla quale quelli che li tengono sospesi con i fili hanno costruito loro ad arte, facendo credere loro che tutto quello rappresentasse la loro realizzazione, la loro pace.
