PRATO. Sì, è proprio così. La condividiamo totalmente la sottotraccia, o - come Lucia Calamaro stessa ha voluto specificare -, il titolo alternativo: nostalgia di casa. Perché esaurite le illusione e gli incantesimi, ad ognuno di noi resta solo quell’amore che si è stati capaci di costruire. E proteggere. E difendere; ed è l’unica divinità alla quale anche il più incallito laico può aggrapparsi, convincendosi dell’eternità. Certo, il nevrotico quartetto in scena (Alfredo Angelici, Cecilia Di Giuli, Simona Senzacqua e Francesco Spaziani) al Fabbricone di Prato (si replica fino a domenica prossima, 12 gennaio) offre a Nostalgia di Dio (figlio del Teatro Stabile dell’Umbria e del Metastasio pratese, in collaborazione con Dialoghi – Resistenze delle arti performative a Villa Manin 2018-19) quell’indispensabile tragicomico retrogusto caro alle pellicole di Woody Allen, più che alle scenografie di Samuel Beckett. Condimento indispensabile perché la trama della tela, che si affaccia agli spettatori da un campo da tennis, si concluda, amorevolmente, nella casa della coppia separata finita in dote alla consorte, ovviamente e dove i quattro amici saranno costretti a rimandare, a data da destinarsi, il pellegrinaggio condiviso solo alle prime luci dell’alba in sette chiese romane.

E gli ingredienti ci son tutti: la coppia/scoppiata che insegue i disincanti degli esordi con due figli da crescere; l’amico d’infanzia fattosi prete e che pare aver risolto tutti i propri dubbi amletici ed esistenziali con la luce divina e l’amica degli altri tre, una professoressa alla disperata ricerca della maternità. Ognuno, in dote, porta le proprie affermazioni, convinzioni e vittorie, ma senza poter nascondere le rispettive debolezze, incertezze, frustrazioni, sconfitte. Basta poco, per spianare la situazione: due racchette da tennis, una mare di palline, una rete che divide in due il campo che diventa poi il salotto dell’abitazione e dove l’ex marito non si è ancora arreso all’idea di non poterci più vivere, tanto da lasciare, in angoli strategici dell’appartamento, alcuni suoi dettagli: scarpe, magliette, completi. Nel mezzo, quel fiume di parole che sono il teatro di Lucia Calamaro, il totale nonsense che si dipana, materializza e si innalza, colloqui intermittenti, tragicomici, scanditi dal ritmo lessicale, fino a formare quella parabola, a forma di arcobaleno, che congiunge due estremità di un cielo plumbeo, carico di acqua e rimpianti. Spesso fino a dio, che è in realtà un bambino, che corre a perdifiato dietro a un pallone, sudato fradicio, con le ginocchia e i gomiti sbucciati e che ha fatto gli uomini solo per poterci giocare insieme. Ed è casa, nel ritorno a casa, che ognuno della famiglia (un nucleo in dissolvenza, che forse dovremmo proteggere con maggior coraggio) ritrova il calore e la serenità, quelle che riescono a preservarci dallo smarrimento, dalle obbligazioni esterne, dalle convenzioni sociali, dai compromessi. Succede a casa, nelle case, dove all’imbrunire si accendono, o si accendevano, il termosifone e la televisione, in attesa dei racconti dei momenti salienti di ognuno dei componenti e delle notizie più importanti offerte da un telegiornale, che i genitori e i figli tracciano il bilancio quotidiano delle proprie esistenze e si raccolgono per riordinare le forze e rinnovarsi, ognuno, alla battaglia del giorno successivo. Una spasmodica ricerca dell’occasione perduta, che diventa enigmistica, surreale e che si celebra in ogni segmento della vita di ognuno di noi, alle prese con i ricordi che si trasformano in sogni e futuro. L’accezione femminile del testo è forte, vero, ma vi possiamo assicurare, noi che siamo padri, che sono sentimenti comuni, condivisi e che poco prima del tramonto ognuno di noi perderà la propria sessualità in funzione di un’umanità che non conosce maschi e femmine, ma uomini e donne, capaci di essere loro stessi solo al cospetto di dio, pardon, di una casa, dove rifugiarsi. E smettere di avere paura.

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