FIRENZE. Dategli spazio, ma non dategli ordini; dategli tempo, ma non ditegli quanto ci dovrà mettere; concedetegli musica e colori, ma non ordinategli i canti e i balli; dategli i teatri, ma non chiedetegli cosa vorrà rappresentare. Filippo Timi è questo: Skianto, ma anche tanto altro, senza capo, né coda; prendere o lasciare. Noi ce lo prendiamo; ce lo siamo presi e ce lo continueremo a prendere, così, sempre, perché il nostro bisogno di andare a teatro coincide, letteralmente, con la sua necessità di farlo. Con lui succede esattamente quello che desideriamo accada: tutto, nulla, da dentro, dalle viscere, da una scatola, probabilmente vuota, per uscire fuori, esplodendo, come un carico spropositato di dinamite fatto brillare al passaggio di una lunga carovana, sulla quale è trascinato il bestiario più rappresentativo dell’umanità. In particolare gli ultimi, disabili compresi, anzi; soprattutto i disabili. Come la cugina, sua cugina, cerebrolesa, alla quale ha voluto dare per poco più di un’ora la possibilità immaginifica, ma necessaria, di parlare.

E farsi capire, finalmente. Lo ha fatto allestendo uno spettacolo pirotecnico, multicolor, circense, fiabesco, kitsch (luci, Gigi Saccomandi e costumi, Fabio Zambernardi), con tanto di luci stroboscopiche e un abbigliamento da Cucini di Campagna, oltre ogni ragionevole retrocontestualizzazione (al Niccolini di Firenze; si replica fino a domenica 19 gennaio), sospeso come un clown/acrobata vestito da Pinocchio, nel quale la vita della cugina, mummificata dalla malattia, prende corpo e sostanza in quella di Filippo, che la racconta in umbro, l’idioma che è più familiare, a entrambi. Dall’incontro del girino del padre e della palla raggomitolata della madre, che si sono abbracciati per farsi coraggio al cospetto della lugubre scena funebre alla quale sono stati costretti ad assistere, quella dei milioni di girini morti, fino ai giorni, eterni, sentenziali, dell’incomprensione, totale, muta, irrisolvibile. Un diadema di silenzi, solitudini, mortificazioni, acrobazie, gestualità commoventi, dolorose, simulando in tragica sembianza quelle della cugina e di tutti quelli che non possono raccontare cosa vorrebbero, fatte uomo, dall’uomo/cavallo a dondolo, che alimenta la propria verve in sella a una cyclette, con un pigiama spaziale o in tenuta da basket, ma anche da rock star, omosessuale, naturalmente, o da jolly con il caschetto alla Jim Carrey, quello di Scemo+Scemo, musicati da Salvatore Ollio Langella, che si avvale dei video di Heater Parisi, della pubblicità, scorrettissima, del latte Panda e di un doppio sottile sipario, trasparente, che divide, solo apparentemente, la felicità dagl’incubi, la platea dal palcoscenico, che è il luogo nel quale gli spettatori tremerebbero alla sola idea di dover salire e sul quale, invece, Filippo Timi riesce a spazzare via tutti i suoi mostri, trasformando se stesso e il suo teatro, entrambi mai uguali. Un tragico, esilarante Arlecchino, che ha imparato a usare meravigliosamente il diaframma da Demetrio Stratos e Bobby McFerrin, il corpo da Pina Bausch, cantando e ballando su tacco dodici in piedi su una sedia, servitore di mille padroni senza scettro che una volta detronizzati hanno deciso di espiare le proprie colpe rendendo alle comunità da loro schiavizzate la gioia e il diritto di replica. Prima di congedarsi dal pubblico, giovane, finalmente, che si era perso, come noi, la prima tornata di Skianto all’epoca del debutto, un bis musicale e canoro non richiesto, ma desiderato fino all’esasperazione, che non poteva che essere un tributo ai Queen e al loro meraviglioso folletto, Freddy Mercury, con la magnifica Don’t stop me now, che è anche la colonna sonora del prologo televisivo della MotoGp, quando Guido Meda invita il pubblico e i centauri a dare il massimo: gas a martello. Con Filippo Timi, per favore, fate la stessa cosa: ditegli di correre all’impazzata e non fermatelo: non fermatelo ora, non fermatelo mai.

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